"Organizza la tua mente in nuove dimensioni, libera il tuo corpo da ataviche oppressioni."
giovedì 27 settembre 2007
Intercettazioni, la Giunta salva D'Alema e molla Fassino
Massimo D'Alema si salva. Gli atti su Unipol che lo riguardano, cioè le telefonate in cui diceva a Consorte "facci sognare", dovranno andare all'europarlamento perché le intercettazioni possano essere utilizzate.
Piero Fassino e l'azzurro Salvatore Cicu invece dovranno farsene una ragione: i loro colloqui con Consorte e gli altri indagati della scalata alla Bnl potranno essere utilizzati anche come prova per successive incriminazioni per concorso in aggiotaggio e insieder trading. Oggi pomeriggio alle 17, dopo mesi di interminabili discussioni, la Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei deputati è finalmente arrivata a una prima decisione: per il ministro degli Esteri si sono dichiarati incompetenti, per Fassino e Cicu, no. Alla fine il giochetto di rimandare tutto l'incartamento alla Forleo, che sembrava la logica conclusione del tutto solo la settimana scorsa, non è passato perché in giunta si è messo di traverso il commissario Federico Palomba dell'Italia dei valori, minacciando sfracelli per conto di Di Pietro. Così alla fine il coniglio dal cilindro tirato fuori da qualche anonimo e solerte funzionario della giunta lo scorso mercoledì non ha avuto l'effetto di trascinamento previsto. E se D'Alema può tirare un ampio respiro di sollievo, Fassino e Cicu già dai prossimi giorni potrebbero dovere avere a che fare con carta bollata, avvocati e avvisi di garanzia.
L'organismo di Montecitorio si era già riunito alle 9 di mattina per un'ora, poi, dopo una sosta è tornato in conclave alle 14,15. Nella seduta di questa mattina era intervenuto Elias Vacca, relatore per la posizione del ministro degli Esteri. Praticamente alle 14 però era già tutto deciso, ma in giunta sono saltati fuori i garantisti di entrambi gli schieramenti e c'è stato un braccio di ferro tra chi voleva ridare alla Forleo tutto o solo il fascicolo di D'Alema. Alla fine per ragioni di immagine, o di casta, ha prevalso questa seconda linea e adesso già oggi la Camera potrebbe decidere se avallare o meno questa scelta.
Un particolare curioso che però rivela come ormai il mondo dell' "informazione fai da te" superi in tempismo quello del giornalismo: due giorni fa su un blog della piattaforma "fainotizia" di radioradicale.it era apparso il post di uno che si fa chiamare "lineagotica" che anticipava il cambio di strategia della giunta e che diceva di averlo saputo a un festival dell' Unità a San Piero in Bagno.
Più precisamente dall'onorevole dell'Ulivo Sandro Brandolini che avrebbe anticipato al blogger le intenzioni della giunta di concedere le autorizzazioni per le telefonate in cui è coinvolto Fassino ma di avere dovuto lottare non poco per vincere le sue ovvie resistenze. Secondo l'estensore del post intitolato "Forse autorizzano l'intercettazione relativa a D'Alema! indiscrezione ricevuta da un Deputato dell'Ulivo" (in realtà hanno autorizzato quella per Fassino, ndr), il deputato in questione gli avrebbe parlato di guerre intestine al partito nel caso Unipol e di strenua resistenza del segretario dei Ds alla tendenza oramai attuata di sacrificare lui per salvare Fassino si è dovuto rassegnare. E domani sarà l'aula a decidere della sua futura carriera politica. Come se non bastasse l'incognita del Pd.
Ora i politici strepitano: che vergogna la pubblicazione delle telefonate! Il problema sono le intercettazioni, non quello che i politici nelle intercettazioni dicono. Ora proveranno a fare una legge per blindarsi dentro il Residence della Politica
Al Qaeda si finanzia nelle moschee durante il Ramadan
Riferiscono alcune fonti che ogni anno, in Algeria, si raccolgono durante il Ramadan circa un miliardo di dollari, buona parte dei quali dovrebbero finire in un conto corrente bancario del ministero per gli Affari religiosi per essere convertiti in opere destinate ai più poveri.
Secondo quanto riporta il giornale arabo 'al-Quds al-Arabi', i diplomatici americani sono molto preoccupati per il fatto che il danaro versato dai fedeli - in ottemperanza al terzo pilastro dell'Islam, che prevede la sua redistribuzione ai più poveri della comunità - possa invece finire sui monti dove si nascondono i terroristi. Per questo una delegazione del governo americano ha incontrato nei giorni scorsi il ministro algerino per gli Affari religiosi, Bouabdullah Ghulamallah, al quale ha espresso le proprie preoccupazioni. Il ministro, però, sembra che abbia risposto stizzito alle domande degli americani, sottolineando come la responsabilità dell'uso di questi soldi non sia del ministero bensì degli stessi donatori. Un funzionario del ministero ha inoltre aggiunto che Ghulamallah avrebbe anche respinto la richiesta degli americani di affiancare ai loro dirigenti una squadra di tecnici per la gestione dei fondi.
Il mese di Ramadan, sacro per tutti i musulmani, è diventato un problema per gli apparati di sicurezza della maggior parte dei paesi arabi. Nel corso del mese di digiuno si svolgono numerose attività, come gli incontri comunitari nelle moschee e la raccolta della Zakat, che servono ai gruppi terroristici per reclutare nuovi seguaci e rifornirsi di danaro. In particolare, il problema si pone in Algeria, dove è certo che parte dei soldi della Zakat versati dai musulmani vengono usati per finanziare al-Qaeda nel Maghreb islamico. A dirlo chiaramente sono stati il Dipartimento di Stato americano e l'ambasciata statunitense ad Algeri.
In generale, comunque, l'avanzata del terrorismo in tutti paesi arabi sta costringendo le autorità locali a prendere nuovi provvedimenti per evitare che il Radaman ed i suoi riti diventino occasione per il finanziamento e la propaganda delle cellule di al-Qaeda.
Il delegato del ministero per gli Affari islamici, Abdelaziz al-Seideri, ha lanciato un appello a tutti i fedeli e agli Imam attraverso l'agenzia di stampa saudita, affinché il denaro raccolto per il Ramadan venga dato solo agli enti caritatevoli autorizzati dal governo.
martedì 25 settembre 2007
"L’Europa fermi il sistema coop"
Intervista esclusiva a Bernardo Caprotti che presenta il suo dossier-denuncia sull'intreccio di potere fra Legacoop e politica.
Milano, 22 settembre 2007 - La concorrenza, per Bernardo Caprotti è un valore irrinunciabile. In particolare nella grande distribuzione, anello di congiunzione fra i consumatori e il mondo della produzione. E’ proprio sul concetto di concorrenza che il patron di Esselunga ha introdotto cinquant’anni fa, insieme a Nelson Rockefeller, i supermercati in Italia, abbattendo i prezzi degli alimentari anche del 20 o del 30% ovunque comparisse la sua grande esse. «Ma ci sono alcune zone d'Italia — accusa Caprotti in questa intervista esclusiva, la prima concessa a un quotidiano, la terza in tutta la sua vita — dov’è difficilissimo esercitare la concorrenza, semplicemente perché non ti permettono di entrare. In questi territori i prezzi sono molto più elevati che altrove, grazie a un monopolio esclusivo e inespugnabile».
Sono le zone a dominanza Coop. Nel suo libro «Falce e carrello», l’imprenditore brianzolo, 82 anni, denuncia le gravi distorsioni esistenti in Italia a favore delle cooperative, di cui è stato vittima e testimone nei passati decenni. Distorsioni talmente vistose da portare la Commissione Europea a promuovere accertamenti ufficiali e a chiedrgli una sua testimonianza.
Che cosa le ha detto Neelie Kroes, la commissaria europea alla Concorrenza?
«Era molto interessata. Con oltre 50 miliardi di euro di fatturato, il 3% del Pil, il gruppo Legacoop è la terza impresa italiana, dopo Eni e Fiat. Domina un quarte del mercato della grande distribuzione. Dà lavoro a oltre 400mila persone. E’ presente in Borsa con alcune società, fra cui Unipol. Insomma, non sono certo dei poveracci. Eppure godono di vantaggi fiscali inauditi: basti pensare che l’imposta sugli utili societari (Ires), incide sull’utile lordo delle Coop solo per il 17%, contro un’incidenza del 43% sull'utile lordo di una società non cooperativa come l’Esselunga. Una differenza di 26 punti percentuali. E’ proprio questo divario ingiustificato che ha fatto rizzare le orecchie alla Commissione Europea».
Lei crede che ci sarà una procedura d'infrazione?
«Mi sembra plausibile. La Commissione ha già inviato a Palazzo Chigi una lettera dove si chiede conto del regime agevolato di cui godono le nove maggiori cooperative. La contestazione principale riguarda proprio il fatto che, a differenza di altre imprese, le Coop non pagano le tasse su buona parte degli utili. A Bruxelles sospettano che anche la nuova normativa configuri un aiuto di Stato, vietato dai trattati europei. La richiesta non rappresenta ancora l’apertura di un’inchiesta formale, ma è il passo preliminare per permettere alla signora Kroes di decidere se farla partire».
Da dove deriva questo trattamento di favore per le Coop?
«Gli intrecci fra gli affari e la politica cui ho assistito in tutti questi anni sono talmente estesi, che non potrebbe essere altrimenti. Giuliano Poletti, presidente di Legacoop, è stato segretario del Pci a Imola. Turiddo Campaini, presidente di Unicoop Firenze, era consigliere comunale dei Ds a Empoli. Pierluigi Stefanini, oggi presidente di Unipol, è stato segretario del Pci bolognese, presidente di Legacoop a Bologna, oltre che membro del comitato scientifico di Nomisma, il centro di studi economici fondato a Bologna nell’81 da Romano Prodi. Ma questi sono solo pochi esempi. Se ne potrebbero fare a decine. Decine di personaggi che si sono messi regolarmente di traverso, sostenuti dagli enti locali, tutte le volte che ho cercato di aprire dei supermercati nelle ‘loro’ zone. Con grande efficacia».
In pratica, un sistema impenetrabile. Ma allora, perché non ha mollato?
«Sono molto testardo. Hanno tentato in tutti i modi di farmi vendere, ma non ci sono riusciti. Aldo Soldi, presidente dell’Associazione nazionale cooperative consumatori (Ancc-Coop), si è fatto interprete più volte di questa aspirazione. Non per profitto, per carità! Solo per difendere il sistema produttivo italiano, specie quello agroalimentare, dal pericolo di una vendita di Esselunga a un acquirente straniero: un supermercato straniero, sosteneva Soldi, tenderà a vendere prodotti stranieri. Assunto completamente smentito dai fatti. Basta fare un sondaggio, per scoprire che i prodotti alimentari stranieri hanno la stessa incidenza sugli scaffali di tutta la grande distribuzione italiana, da Carrefour a GS, da Auchan a Esselunga. Stranieri o italiani non fa differenza. Soldi è arrivato a dire che le Coop si sentivano in ‘diritto-dovere’ di comprare Esselunga, per difendere le piccole imprese alimentari italiane! Ma questa campagna in piena regola è stata talmente insistente che alla fine hanno ottenuto l’effetto contrario».
Quando?
«Credo che il colpo definitivo l’abbia dato proprio Romano Prodi, nel febbraio 2006. Di fronte all’incalzare delle Coop e all’età che avanza qualche interrogativo me l’ero posto, nell’estate del 2005. Ma Prodi, durante una puntata di Porta a porta è andato oltre i limiti, enunciando in campagna elettorale l’obbligo per il governo di ‘mettere insieme’ Coop ed Esselunga. In qualche modo: quale, non si sa. Ha detto proprio così. ‘Abbiamo le Coop, c’è ancora l'Esselunga’. E ha continuato: il governo ‘le può mettere assieme, può aiutarle a fare una politica perché stiano assieme’. Non credevo alle mie orecchie. Grazie a Prodi, sono ancora qui. E ho tutta l’intenzione di restarci».
Allora non è vero che vuole vendere a Tesco?
«Non ci penso nemmeno. Potrei vendere soltanto a un acquirente coerente con la filosofia dell’Esselunga. E Tesco non sarebbe coerente, ha un approccio completamente diverso, quasi da discount».
C’è qualcuno a cui venderebbe volentieri?
«I supermercati americani Wegmans mi piacciono molto e anche gli inglesi di Waitrose, ma non ho mai avuto contatti con loro. Vendere non è obbligatorio».
Ma se ne parla. Lei ha una certa età e suo figlio Giuseppe è uscito dall’azienda nel 2004, dopo un tentativo fallito. Le figlie Violetta e Marina, a loro volta, non sembrano interessate. E quindi?
«C’è l’ipotesi della quotazione, seriamente considerata ma mai studiata a fondo. Potrebbe essere un’opzione, per avere la liquidità necessaria ad espanderci e una platea di soci. Forse saremmo più forti, anche politicamente. Sarebbe ora...»
Afghanistan: gli italiani fanno la guerra e il Prc minaccia il governo
di Carlo Panella
Gennaro Migliore ha chiarito in Parlamento –sia pure con tatto- il senso di quanto è accaduto realmente in Afghanistan, là dove i nostri due militari erano stati palesemente impegnati in azione di vera e propria guerra –probabilmente per impedire rifornimenti di armi iraniane ai Talebani- e non in azione “di copertura” e tantomeno umanitaria.Lo strano, stranissimo rifiuto di Arturo Parisi di comunicarne i nomi al Parlamento conferma questo quadro. Non si tratta di agenti del Sismi, ma di membri dell’esercito ormai fuori dal teatro operativo. Non dichiararne le generalità ha un significato solo: la loro azione non era verbalizzata nei ruolini. Il segreto di Stato copre l’azione, dunque ed è invocato –questo è gravissimo- solo e unicamente perché l’attuale maggioranza di governo non può tollerare di sapere quel che autorevoli testimoni sanno e dicono riservatamente: in Afghanistan nostri uomini compiono azioni di commando, combattono in pieno la guerra, e questa è la ragione per cui gli alleati sopportano le bizze verbali del nostro governo “pacifista”. Migliore è stato dunque inequivocabile: “"Non condivido l'idea che vi possano essere dei “caveat” diversi per il nostro esercito. Perché se si modificasse la regola d'ingaggio per i nostri militari e si associassero alle operazioni belliche, i rischi a cui andrebbero incontro gli italiani sarebbero ancora maggiori”. Con ottime doti da equilibrista, dunque, il capogruppo di Prc ha avvisato il governo che sa tutto e che oggi tace, ma solo perché l’azione è tutto sommato finita bene, ma che non tollererà altri episodi simili.
Ma il punto politico della giornata è ancora più grave. Mentre infatti il comando Isaf preparava l’azione di liberazione armata degli ostaggi –preparazione ovviamente iniziata almeno domenica mattina- il nostro ministro degli Esteri annunciava domenica sera, urbi et orbi, di avere chiesto formalmente e direttamente, la mediazione di Manoucher Mottaki, ministro degli esteri dell’Iran.
D’Alema scrive sempre lo stesso libro e impiega lo stesso schema. Per Mastrogiacomo si appoggiò –sciaguratamente- su un aperto estimatore dei Talebani rapitori e un avversario politico aperto dell’azione Isaf. Per i due soldati prigionieri, si è rivolto al padrino dichiarato dei Talebani rapitori, al rappresentante del paese che fornisce loro le armi, proprio in quella zona, come rivelò il Washington Post il 6 settembre e hanno confermato le agenzie dello stesso 22 settembre. Giorno in cui sono stati intercettate armi iraniane –la coincidenza con la azione in cui sono stati catturati gli italiani non è, ovviamente, casuale- fornite proprio ai Talebani della provincia di Farah, tra queste, mine antiuomo iraniane usate proprio oggi nell’attentato mortale contro i militari spagnoli.
Rivolgersi pubblicamente –non riservatamente, questo è il punto- a Mottaki, significa essere pronti a pagare il prezzo politico che il padrino dei Talebani avrebbe potuto esigere una volta ottenuto il risultato. Così è andata con Gino strada. Così D’Alema ha scelto che andasse anche in questo caso, pronto a pagare un prezzo politico e quindi, come ha già fatto più volte assieme a Romano Prodi, a incrinare la solidarietà europea e atlantica nell’azione contro l’Iran e i suoi programmi nucleari.
Ma mentre D’Alema tesseva la sua tela –al solito- è stato spiazzato da un comando Isaf che ormai ben conosce il trasformismo cinico del governo Prodi (pubblicamente criticato per la gestione del caso Mastrogiacomo) e che ha subito dato un taglio netto a tutte le disponibilità italiane, chiaramente espresse, di pagare riscatti di ogni tipo. Il tutto, mentre cresceva l’irritazione di Arturo Parisi nei confronti di D’Alema –il nostro ministro della Difesa è nettamente schierato, solidarmente con l’Isaf- che ha voluto farla trapelare –al solito- attraverso il Corriere della Sera (come già fece criticando apertamente la gestione del caso Mastrogiacomo).
Paradossalmente, per la prima volta, è stato applicato l’articolo 11 della Costituzione che, al ripudio la guerra –ma non in generale, come si dice, ma solo limitatamente a quella d’aggressione- subito dopo affianca una frase decisiva, che ne ribalta il senso, in situazioni quali l’Afghanistan e l’Iraq, aggiungendo che la Repubblica italiana “consente alle limitazioni di sovranità (..) necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni.”
Dunque, il governo italiano ha compiuto una scelta limpida e coraggiosa, ma solo perché non ha deciso da solo, solo perché ha ceduto sovranità all’Isaf. Solo perché ha dato il suo assenso –dovuto- ad una decisione del comando militare americano.
Gennaro Migliore ha chiarito in Parlamento –sia pure con tatto- il senso di quanto è accaduto realmente in Afghanistan, là dove i nostri due militari erano stati palesemente impegnati in azione di vera e propria guerra –probabilmente per impedire rifornimenti di armi iraniane ai Talebani- e non in azione “di copertura” e tantomeno umanitaria.Lo strano, stranissimo rifiuto di Arturo Parisi di comunicarne i nomi al Parlamento conferma questo quadro. Non si tratta di agenti del Sismi, ma di membri dell’esercito ormai fuori dal teatro operativo. Non dichiararne le generalità ha un significato solo: la loro azione non era verbalizzata nei ruolini. Il segreto di Stato copre l’azione, dunque ed è invocato –questo è gravissimo- solo e unicamente perché l’attuale maggioranza di governo non può tollerare di sapere quel che autorevoli testimoni sanno e dicono riservatamente: in Afghanistan nostri uomini compiono azioni di commando, combattono in pieno la guerra, e questa è la ragione per cui gli alleati sopportano le bizze verbali del nostro governo “pacifista”. Migliore è stato dunque inequivocabile: “"Non condivido l'idea che vi possano essere dei “caveat” diversi per il nostro esercito. Perché se si modificasse la regola d'ingaggio per i nostri militari e si associassero alle operazioni belliche, i rischi a cui andrebbero incontro gli italiani sarebbero ancora maggiori”. Con ottime doti da equilibrista, dunque, il capogruppo di Prc ha avvisato il governo che sa tutto e che oggi tace, ma solo perché l’azione è tutto sommato finita bene, ma che non tollererà altri episodi simili.
Ma il punto politico della giornata è ancora più grave. Mentre infatti il comando Isaf preparava l’azione di liberazione armata degli ostaggi –preparazione ovviamente iniziata almeno domenica mattina- il nostro ministro degli Esteri annunciava domenica sera, urbi et orbi, di avere chiesto formalmente e direttamente, la mediazione di Manoucher Mottaki, ministro degli esteri dell’Iran.
D’Alema scrive sempre lo stesso libro e impiega lo stesso schema. Per Mastrogiacomo si appoggiò –sciaguratamente- su un aperto estimatore dei Talebani rapitori e un avversario politico aperto dell’azione Isaf. Per i due soldati prigionieri, si è rivolto al padrino dichiarato dei Talebani rapitori, al rappresentante del paese che fornisce loro le armi, proprio in quella zona, come rivelò il Washington Post il 6 settembre e hanno confermato le agenzie dello stesso 22 settembre. Giorno in cui sono stati intercettate armi iraniane –la coincidenza con la azione in cui sono stati catturati gli italiani non è, ovviamente, casuale- fornite proprio ai Talebani della provincia di Farah, tra queste, mine antiuomo iraniane usate proprio oggi nell’attentato mortale contro i militari spagnoli.
Rivolgersi pubblicamente –non riservatamente, questo è il punto- a Mottaki, significa essere pronti a pagare il prezzo politico che il padrino dei Talebani avrebbe potuto esigere una volta ottenuto il risultato. Così è andata con Gino strada. Così D’Alema ha scelto che andasse anche in questo caso, pronto a pagare un prezzo politico e quindi, come ha già fatto più volte assieme a Romano Prodi, a incrinare la solidarietà europea e atlantica nell’azione contro l’Iran e i suoi programmi nucleari.
Ma mentre D’Alema tesseva la sua tela –al solito- è stato spiazzato da un comando Isaf che ormai ben conosce il trasformismo cinico del governo Prodi (pubblicamente criticato per la gestione del caso Mastrogiacomo) e che ha subito dato un taglio netto a tutte le disponibilità italiane, chiaramente espresse, di pagare riscatti di ogni tipo. Il tutto, mentre cresceva l’irritazione di Arturo Parisi nei confronti di D’Alema –il nostro ministro della Difesa è nettamente schierato, solidarmente con l’Isaf- che ha voluto farla trapelare –al solito- attraverso il Corriere della Sera (come già fece criticando apertamente la gestione del caso Mastrogiacomo).
Paradossalmente, per la prima volta, è stato applicato l’articolo 11 della Costituzione che, al ripudio la guerra –ma non in generale, come si dice, ma solo limitatamente a quella d’aggressione- subito dopo affianca una frase decisiva, che ne ribalta il senso, in situazioni quali l’Afghanistan e l’Iraq, aggiungendo che la Repubblica italiana “consente alle limitazioni di sovranità (..) necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni.”
Dunque, il governo italiano ha compiuto una scelta limpida e coraggiosa, ma solo perché non ha deciso da solo, solo perché ha ceduto sovranità all’Isaf. Solo perché ha dato il suo assenso –dovuto- ad una decisione del comando militare americano.
venerdì 7 settembre 2007
Il Portale delle libertà aderisce al V-day
Beppe Grillo da diverso tempo ha lanciato il v-day che serve per la raccoltà di firme per la proposta di iniziativa popolare sugli inquisiti eletti nel parlamento.
Ci ho pensato un pò prima di pubblicarlo, ma credo che la raccolta di firme sia un sistema democratico che sovrintende qualsiasi altra considerazione.
Quali erano la mie preoccupazioni: il vaffanculo day suona un pò da atteggiamento qualunquista ma in realtà non è così.
Ci sarebbero davvero tante ragioni per mandare a fanculo tutti i nostri politici o quasi, ma qui si tratta davvero di una cosa incredibile: gli stessi che urlano contro i lavavetri agli angoli delle strade sono quelli che sono stati inquisiti o peggio sono stati condannati e siedono ancora in parlamento.
E' una proposta contro i politici di professione, è una proposta di legge che dovrebbe essere trasversale, come purtroppo i politici inquisiti.
Ho sempre inteso la politica come passione. Credo che essa debba essere messa al servizio delle idee che permettano ad una società di avanzare e di migliorare.
L'attuale classe politica ha perso di vista questo suo ruolo, diventando molto spesso autoreferenziale. Con l'ultima legge elettorale riguardante l'elezione dei parlamentari questa tendenza ha raggiunto il culmine. Si è impedito ai cittadini di scegliere il proprio candidato, permettendo ai partiti di portare in parlamento persone "fedelissime", a volte del tutto sconosciute agli elettori.
Il Portale delle libertà aderisce al V-Day per questi motivi:
- La politica è divenuta risibile e il V-Day è uno dei tentativi di cambiare qualcosa
- Crediamo nelle spinte propulsive popolari capaci di trapassare i colori politici e le divergenze ideologiche per migliorare etica, morale e politica in Italia
- Il Portale delle libertà da sempre compie un'azione di critica nei confronti dei politici, spesso di entrambi gli schieramenti.
Ci sembra che il V.day, malgrado certi toni rivoluzionari, sia sintonizzato sulla stessa lunghezza d'onda
Abbiamo aderito quindi al V-Day indetto da Beppe Grillo per raccogliere le firme necessarie a proporre una legge di iniziativa popolare, che permetta di cambiare questa situazione.
Nicola Santoro
Redazione "Il Portale delle libertà "
giovedì 6 settembre 2007
Sicurezza interna. Sinistra in crisi
Dopo un anno e più di governo la sinistra si è accorta di essere in crisi sulla sicurezza e si dimostra propositiva e interessata sul tema, al punto da riempire le pagine dei giornali; e perfino le divisioni al suo interno fanno emergere decisioni sofferte, che comunque si intendono assumere, nonostante i contrasti. E’ sufficiente un rapido bilancio di quanto Prodi e compagni hanno fatto sul punto fino a questo momento: -Il ministro dell'Interno ha più volte in Parlamento denunciato la pesante riduzione dei fondi dall'ultima Legge finanziaria: l'incremento del carico fiscale, cui hanno fatto seguito maggiori entrate, è stato paradossalmente accompagnato dalla decisione di ridurre complessivamente di un miliardo di euro l'intero sistema della sicurezza. Risultato: Amato ha riferito di aver chiesto ai Vigili del Fuoco di non pagare i canoni di locazione degli immobili nei quali operano e di utilizzare i pochi soldi rimasti per fare benzina! A proposito di benzina: nella Finanziaria del 2006 la voce relativa al carburante e alle riparazioni delle vetture delle forze di polizia era di circa 67 milioni di euro; nel 2007 è stata ridotta a 27: 40 milioni di euro in meno da un esercizio finanziario all'altro! Questo spiega l'incremento sensibile di incidenti stradali, anche mortali, corrispondenti alla diminuzione dei controlli, a sua volta conseguente al fatto che più della metà delle automobili delle forze dell'ordine restano in garage.
-E’ patetico l’interesse quasi esclusivo sui lavavetri, mentre rapinatori, ladri, estorsori e omicidi viaggiano in libertà. E’ vero che l’indulto è stato votato dai 3/4 dei parlamentari, ma è altrettanto vero che il governo Prodi ha dato un contributo decisivo al suo varo: in particolare, il ministro Mastella, enfatizzando il problema carceri e portando alla Camera e al Senato dati falsi su quanti avrebbero fruito del provvedimento di clemenza (12.000, a suo dire; 43.000, a distanza di un anno), e il ministro Amato, rifiutando di illustrarne le prevedibili conseguenze in termini di incremento dei reati più gravi. Ciò ha permesso di rimettere anzitempo in libertà - e di restituire al loro disonesto lavoro - migliaia di rapinatori, ladri ed estorsori. In un anno rapine, furti, estorsioni e omicidi sono cresciuti: è proprio il caso di continuare a parlare di lavavetri? Non servono nuove figure di reato per questi illeciti da strada: serve la puntuale applicazione di regole la cui inosservanza è stata colpevolmente tollerata. Accompagnata dal ricordo che il “no ai lavavetri” è stato finora contraddittoriamente affiancato dal “sì ai clandestini”: un anno abbondante di scelte amministrative del governo Prodi ne ha incrementato il numero, consolidando uno dei fattori più diffusi di aumento della criminalità.
-L’indulto gli italiani non lo volevano. E’ servito a evitare il carcere a chi, spesso molto vicino ai partiti, aveva commesso reati contro la pubblica amministrazione, reati finanziari, reati societari, reati fiscali. Il resto sono balle.
Mastella è stato messo lì per questo. E’ un inciucione bipartisan. Garantisce tutti, tranne i cittadini.
Gli effetti dell’indulto si sono visti in questi mesi. Adesso un Governo di impuniti ci dice che vuole impedire le scarcerazioni facili. Che vuole combattere la microcriminalità.
Secondo una analisi costi-benefici
I dati ISTAT mostrano che a fronte di una spesa media per detenuto calcolata intorno ai 70mila euro l’anno (2), la società civile paga un prezzo stimato di 150mila euro in conseguenza dei crimini commessi in media dai detenuti che usufruiscono del beneficio di clemenza. E si tratta di una stima che pecca per difetto, perché non tiene conto di alcune tipologie di reati per i quali è impossibile stabilire un costo, come lo spaccio di stupefacenti, i tentativi di omicidio o la
È dunque assolutamente necessario riequilibrare il rapporto tra costi e benefici della detenzione.
Prima dell’indulto del luglio 2006 la popolazione carceraria italiana era pari a 60mila persone. Grazie all’indulto ne sono state liberate circa 26mila. Ma a giugno 2007, ultimo dato disponibile, si era già tornati alla capienza regolamentare delle carceri, e cioè 43mila detenuti. Tra pochissimo, dunque, si riproporrà il problema del sovraffollamento. Prima di riparlare di atti di clemenza, andrebbero almeno introdotte misure di selezione più efficienti di quelle adottate finora.
martedì 4 settembre 2007
Si svendono le case...ma per i politici
Roma - Da affittopoli ad acquistopoli. Anche un mercato immobiliare drogato come quello romano, secondo l’Espresso, offre qualche curiosa sorpresa. Gli «annunci immobiliari» snocciolati sull’ultimo numero del settimanale sono davvero interessanti. Ma è tutto già venduto a nomi noti: da Veltroni a Casini, da Violante a Mastella. E da sinistra qualcuno già annuncia querele.
Una palazzina al quartiere Trieste, 30 vani e cinque appartamenti, finiscono all’ex moglie, alle figlie e all’ex suocera del leader Udc Pierferdinando Casini per 1,8 milioni di euro. Un appartamento al Vaticano, sei vani, doppi servizi, cantina e balconi, se lo aggiudica Maura Cossutta del Pdci per 165mila euro, comprando dalla Scip, insieme alla vicina di casa, e senatrice dell’Ulivo, Franca Chiaromonte, che spende 113mila euro per 4 vani al piano di sotto. Nel quartiere della Balduina, l’ex ministro Mario Baccini acquista da Initium attico e superattico (15 vani) a 875mila euro. Luciano Violante sgancia all’ex Ina solo 327mila euro per una casa su tre livelli con due terrazze al foro Traiano, in via di Sant’Eufemia.
Benvenuti a Svendopoli, annuncia l’Espresso. Presentando l’immancabile sequel dell’indimenticato Affittopoli lanciato dal Giornale nel ’96. Vaticinato, due legislature fa, da Marco Taradash, che in un’interrogazione del gennaio 2001 paventava la svendita di immobili di pregio a «esponenti del mondo politico, della magistratura, del giornalismo». Un film già visto, dunque, con i soliti protagonisti: politici, magistrati, sindacalisti, giornalisti e grand commis. Tutti accomunati da due elementi, sottolinea il settimanale diretto da Daniela Hamaui: «Sono potenti che hanno pagato troppo poco ieri per l’affitto e oggi per l’acquisto». Anche se, ricorda ancora il giornale, i buoni affari conclusi dai «potenti» non sono «elargizioni personali», ma frutto «del meccanismo degli sconti collettivi» concessi dagli enti previdenziali al momento della dismissione dei patrimoni immobiliari.
Ma «Svendopoli» non fa in tempo a esplodere che arriva, immediata, la replica di chi viene tirato in ballo. Minacciano querela il presidente del Senato Franco Marini (le modalità dell’acquisto dall’Inpdai dei 14 vani ai Parioli per 1 milione di euro sono «notizie false», sibila) e il guardasigilli Clemente Mastella. Il leader Udeur, secondo il settimanale, nel 2006 avrebbe fatto acquistare per un milione e 452mila euro la sede del giornale del suo partito, in largo Arenula, a una società intestata ai suoi figli, Elio e Pellegrino, grazie alla rinuncia del partito al diritto di prelazione concesso dall’Inail all’Udeur. I Mastella sono citati nell’inchiesta dell’Espresso anche per l’acquisto dall’Ina di 5 appartamenti a prezzo di favore sul lungotevere Flaminio, nel 2004. Prendiamo lo stabile Inpdai di via Velletri, a due passi da via Veneto. Al primo piano la moglie di Walter Veltroni ha comprato più o meno allo stesso prezzo pagato dall'ex sottosegretario Marianna Li Calzi che abita al quarto.
Ma le due storie sono diverse. Li Calzi ha ottenuto il suo attico alla vigilia della svendita a seguito di una discussa procedura pubblica. Veltroni invece è nato nelle case dell'ente previdenziale dei dirigenti. L'Inpdai aveva affittato sin dal 1956 un appartamento al padre, dirigente Rai.
Nel 1994 i Veltroni restituirono all'ente i due alloggi nei quali vivevano Walter e la mamma per averne in cambio uno più grande, il famoso primo piano di via Velletri da 190 metri quadrati che nel 2005 è stato acquistato dalla moglie del sindaco, Flavia Prisco, per 373 mila euro.
Il prezzo è basso per effetto non di un'elargizione personale ma per il meccanismo degli sconti collettivi concessi a tutti allo stesso modo. Altra cosa ancora sono gli acquisti delle case dell'Ina ora finite a Generali e Pirelli. Questi colossi privati in alcuni casi si sono comportati come spietati alfieri del libero mercato.Tutto ciò e assurdo. Ci sono giovani che non possono sposarsi perchè non hanno una casa, chi si sposa è costretto a fare un mutuo ed indebitarsi per tutta la vita, l'Italia è all'ultimo posto in Europa per crescita demografica...e i nostri politici che fanno? Fanno svendere le case. Non per noi, ma per loro che, tra l'altro, potrebbero permettersele anche a prezzi maggiori di quelli odierni. Con che faccia Casini e Mastella parlano di politiche familiari, Cossutta del Pdci di comunismo e proletariato? Si stanno svendendo anche le mogli con "divorzi di convenienza". Vergogna!! I vostri elettori vi hanno votato per scopi sicuramente più nobili, ma siete così distanti da loro da scordare il senso della civiltà.
lunedì 3 settembre 2007
I cristiani ripopolano l'Arabia, quattordici secoli dopo Maometto
Il 31 maggio la Santa Sede ha allacciato le relazioni diplomatiche e ha scambiato gli ambasciatori con gli Emirati Arabi Uniti.
Pochi l'hanno notato, ma gli Emirati Arabi Uniti sono il paese islamico con la più alta presenza di cristiani.
Ed è una presenza nuova e in crescita. Tutto l'opposto di quanto avviene in altre regioni del Medio Oriente come l'Iraq, il Libano, la Terra Santa, dove comunità cristiane di antichissime origini addirittura rischiano di scomparire.
Gli Emirati Arabi Uniti sono una federazione di sette emirati: Abu Dhabi, Ajman, Dubai, Al-Fujayrah, Ras al-Khaimah, Sharjah e Umm al-Qaiwain, situati lungo la costa centro-orientale della penisola arabica. La capitale è Abu Dhabi. La religione ufficiale è l'islam, cui appartiene la quasi totalità dei cittadini.
Ma molto più numerosi dei cittadini sono gli immigrati. Su oltre 4 milioni di abitanti, gli stranieri sono oggi più del 70 per cento, provenienti da altri paesi arabi, dal Pakistan, dall’India, dal Bangladesh, dalle Filippine.
Di questi lavoratori stranieri, più della metà sono cristiani. Tirate le somme, negli Emirati Arabi Uniti i cristiani sono più del 35 per cento della popolazione. I cattolici sfiorano il milione. E non solo lì. Anche in Arabia Saudita si stima che i cattolici provenienti dalle Filippine siano già attorno al milione.
Ma chi sono e come vivono questi cristiani in terra d'Arabia? Qual è il volto di questa Chiesa giovane e in crescita? Quali sono i suoi margini di libertà?
Il reportage che segue risponde a queste domande. È uscito domenica 19 agosto sul quotidiano della conferenza episcopale italiana, "Avvenire":
La Chiesa sommersa degli Emirati Arabi Uniti
di Fabio Proverbio
È pomeriggio e in compagnia di Santos e Lea attraverso in auto la frenetica Dubai. Intorno a me voluminosi Suv che a fatica avanzano nel congestionato traffico urbano, lussuosi e modernissimi edifici, immensi cantieri edili animati da eserciti di operai: la conferma che ci troviamo in una delle città più all'avanguardia e in fermento del pianeta.
Siamo diretti verso un luogo d'asilo messo a disposizione dalla diplomazia delle Filippine per ospitare e proteggere le giovani immigrate in fuga dai propri datori di lavoro.
Arrivato destinazione, in un elegante palazzo, incontro un centinaio di ragazze impegnate a compensare lo stato di naturale disordine generato dall'affollamento (vedi foto). Strette le une alle altre, intonano canti e preghiere, scambiandosi abbracci di reciproca consolazione. Osservo le lacrime che nessuna ragazza riesce a trattenere e cerco inutilmente di dare una ragione a tanta tristezza. Capirò al termine della preghiera, quando Santos e Lea mi raccontano le drammatiche esperienze vissute da queste giovani immigrate.
Sono storie quasi inverosimili, come quella di Beng che, stanca di essere tenuta rinchiusa nella casa dove prestava servizio e di sopportare molestie da parte dei membri della famiglia, ha tentato una disperata fuga, conclusasi con una rovinosa caduta e la rottura di un braccio. Soccorsa e condotta in ospedale da alcuni passanti, la ragazza è stata successivamente arrestata con l'accusa di tentato suicidio. L'intervento della diplomazia filippina ha finalmente rimesso in libertà l'immigrata che oggi, in questo luogo protetto, attende gli sviluppi del processo. Non miglior sorte è toccata alla domestica che ha prestato servizio dopo di lei presso la stessa famiglia: un nuovo tentativo di fuga col medesimo epilogo.
Santos e Lea fanno parte della Legione di Maria, il movimento cattolico divenuto qui il punto di riferimento per molte immigrate filippine che, in questa comunità, trovano non solo solidarietà, ma anche la necessaria assistenza legale per potersi affrancare da condizioni di lavoro spesso non corrispondenti a quelle definite nel contratto d'ingaggio.
Dopo aver salutato le giovani immigrate, che nel frattempo avevano almeno in apparenza riacquistato un principio di serenità e quello spirito gioviale che caratterizza il popolo filippino, parto per Abu Dhabi.
È domenica, ma in un paese musulmano come gli Emirati Arabi Uniti è un giorno qualsiasi. Eppure nella chiesa cattolica di San Giuseppe ad Abu Dhabi, nel tardo pomeriggio assisto a uno straordinario andirivieni di fedeli, appartenenti a gruppi etnici diversi, che qui vengono per poter partecipare alla messa celebrata nella propria lingua nazionale. Sono indiani, per lo più del Kerala o del Tamil Nadu, filippini, libanesi, iracheni o cristiani provenienti da altri paesi mediorientali, ma anche europei e americani.
Il venerdì, giorno festivo nei paesi musulmani, l'afflusso di fedeli è ancora più copioso, tanto che la chiesa non riesce a contenerli tutti. Molti devono seguire la celebrazione fuori, sul sagrato antistante, dove, in occasione di festività particolari come Natale o Pasqua, vengono allestiti degli schermi giganti per permettere a tutti la partecipazione. Tuttavia, come tiene a precisare monsignor Paul Hinder, vescovo del vicariato apostolico d'Arabia, coloro che frequentano regolarmente la parrocchia sono solo una piccola percentuale, il 15-18 per cento, della popolazione cattolica della capitale e dei dintorni.
* * *
I cristiani presenti negli Emirati Arabi Uniti rappresentano circa il 35 per cento della popolazione, per un totale di fedeli superiore al milione, in maggioranza cattolici.
Sono tutti lavoratori immigrati, molti dei quali, abitando in zone periferiche mal collegate alle città, non possono frequentare regolarmente i luoghi ufficiali di culto. È questo il caso di migliaia d'indiani occupati nei cantieri edili di Dubai ed alloggiati nel più grande villaggio-dormitorio dell'Asia che, secondo stime non ufficiali, ospiterebbe una popolazione di circa trecentomila operai. Oppure degli immigrati che lavorano nell'industria petrolifera, dislocati in lontani villaggi-oasi nel deserto.
Altro caso è quello delle domestiche filippine che, per mancanza di tempo libero o di denaro per il trasporto, restano vincolate al luogo dove lavorano. Di conseguenza, la preghiera organizzata in piccoli gruppi di fedeli, omogenei per lingua e provenienza, raccolti in ambienti privati – appartamenti, dormitori, rimesse – diviene un aspetto molto importante e diffuso dell'espressione religiosa delle comunità cattoliche. Si tratta di un momento di incontro necessario, ma rischioso per le regole imposte dalle autorità locali, che consentono la libertà di culto solo in ambiti ufficialmente riconosciuti come gli edifici parrocchiali presenti sul territorio. In questo contesto, i gruppi carismatici originari dell'India o delle Filippine assumono un ruolo importante nell'attivare iniziative a sostegno dell'immigrato che vive nelle condizioni più difficili. Spesso non si limitano ad iniziative religiose ma intervengono anche con servizi pratici d'assistenza, come nel caso della Legione di Maria.
Il fenomeno dell’immigrazione negli Emirati Arabi è relativamente recente ed è legato alla fortuna petrolifera della regione. Quando negli anni Cinquanta e Sessanta gli introiti petroliferi hanno cominciato a portare prosperità e progresso, lo sviluppo del paese ha reso necessario l’impiego di manodopera proveniente dall’estero, specializzata e non.
Oggi gli Emirati stanno subendo un processo di modernizzazione che non ha eguali nel mondo. I petroldollari vengono reinvestiti in strutture ed infrastrutture all’avanguardia, la borsa di Dubai sta assumendo importanza mondiale e il porto è tra i più frequentati del globo. Isole artificiali a forma di palma, piste da sci nel deserto, hotel dalle forme più improbabili e tutta una serie di costruzioni eccentriche – come la non ancora ultimata torre Burj Dubai, che dovrebbe essere l’edificio più alto al mondo – sono solo alcuni esempi delle "meraviglie" con cui gli emiri locali si sono proposti di sbalordire il mondo e di attirare gli investitori stranieri, che qui trovano favorevoli condizioni di investimento e un costo del lavoro bassissimo.
Gli immigrati rappresentano il 90 per cento dei quasi due milioni di lavoratori presenti negli Emirati, percentuale che raggiungere il 100 per cento per la manodopera a basso costo. Di fatto, agli arabi locali il concetto di povertà o è sconosciuto – per i più giovani – o è un ricordo sbiadito di tempi lontani. La mancanza di spinte alla realizzazione professionale ed economica – già garantite alla nascita – sta addirittura demotivando la futura classe dirigente del paese, con il rischio di renderla inadeguata ad affrontare le sfide imposte dalla globalizzazione.
Il termine stesso di "immigrato" è troppo generico per definire la realtà di chi oggi lavora per cambiare il volto del Golfo. Il vero statuto di questi lavoratori, anche di quelli che vivono ormai da parecchi anni negli Emirati, è quello di "espatriati", ovvero di persone la cui presenza nel paese è unicamente legata al possesso di un regolare contratto di lavoro, ma che mai potranno diventare residenti o acquistare case e terreni sul posto. Il loro destino è legato alle decisioni dei datori di lavoro, che spesso tengono in ostaggio il loro passaporto per timore di fughe o atti di insubordinazione. Gli ambiti di utilizzo di questa manodopera sono quelli legati all’industria petrolifera e, più recentemente, al settore edile e all’aiuto domestico.
Questi sono i nuovi poveri di Dubai e dintorni. Il loro salario mensile difficilmente supera i 150 euro, lavorano mediamente 10-12 ore al giorno, sei giorni su sette, a temperature che possono arrivare a 50 gradi centigradi. Vivono in sobborghi-dormitorio grandi quanto città, ma totalmente privi di servizi. Simili ad enormi caserme, questi villaggi sono popolati da uomini soli, per i quali la famiglia è un ricordo lontano, da raggiungere periodicamente con un vaglia postale che consentirà, ai più fortunati, di mandare a scuola i figli o di pagare i debiti di una famiglia troppo povera. Il miglior destino delle reclute di questo esercito di manovali è di poter spendere la propria vita professionale nei cantieri del Golfo con brevi visite ai propri cari ogni due-tre anni.
Parlare di povertà in un paese in rapidissima crescita economica – e che punta a diventare, per l’ambizione dei suoi governanti, uno dei poli più importanti dell’arte contemporanea, con l’apertura di musei e spazi espositivi – sembra un paradosso. Anzi, è una realtà particolarmente difficile da comprendere ed accettare per l’osservatore esterno, proprio a motivo dell’esagerata opulenza con cui si trova a convivere.
Ma anche questi aspetti vanno considerati per cercare di comprendere la realtà degli Emirati oggi: una terra di grandi contrasti, dove la tradizione si scontra con la modernità in una fusione unica, sorprendente e drammaticamente contraddittoria, di Oriente e Occidente.
Putin lancia il «sesso patriottico»
Sesso per la patria. In questo mese, in vari luoghi della Russia, si stanno tenendo i campi dell’organizzazione giovanile «Nashi» (Nostri), sponsorizzata dal Cremlino. Le decine di migliaia di partecipanti ascoltano gli appelli alla procreazione lanciati su richiesta del presidente Vladimir Putin, preoccupato per il calo della popolazione, «pericoloso per la sicurezza nazionale». Nella patriottica campagna si spinge in avanti il sindaco di Ulyanovsk, città natale di Lenin, proclamando per il 12 settembre la «Giornata del concepimento»: un intero giorno di vacanza per le coppie affinché si dedichino con agio a concepire un bambino che, auspicabilmente, venga al mondo esattamente nove mesi dopo, il 12 giugno, festa nazionale. Per i partecipanti alla maratona nel talamo, onori e sostanziosi premi - costose auto, frigoriferi, tv, ingenti somme di denaro - alla nascita dei bimbi.
Non si equivochi. Non si tratta di orge o di festival dell’erotismo, né di campagne ufficiali per il sesso facile. È un’iniziativa collettiva animata da spirito nazionale davanti alla concreta prospettiva che la popolazione russa, in costante declino, si riduca presto di un terzo, scendendo dai 141 milioni di oggi a poco più di cento nel 2050. Come riferiscono i giornali, nei campeggi di «Nashi» si incoraggia a far sesso, ma all’insegna di impegni seri: i giovani che flirtano sono sollecitati a sposarsi lì, sul posto. Si hanno matrimoni di massa celebrati con festeggiamenti in tutto il campo, dopo i quali ai novelli sposi viene assegnata la tenda nuziale nell’«oasi dell'amore», uno speciale settore a forma di cuore, con un discorso del «kommissar», ovvero un funzionario dell’organizzazione, indicato con un termine dell’età sovietica: «Ricordatevi dei mammut! Si sono estinti - dice - perché non facevano sesso abbastanza. Ciò non deve accadere in Russia».
Pur nella festosità della sollecitazione alla procreazione patriottica, l'atmosfera è austera: proibiti preservativi e anticoncezionali; per le ragazze, banditi reggiseni sexy e tanga «perché fanno rischiare la sterilità», distrutti sotto i loro occhi e sostituiti con monacali mutande e materni reggipetto d'antan. «Nashi», che raggruppa giovani universitari e delle scuole superiori, si ispira ai valori indicati da Putin: spirito nazionale per la Grande Russia, sostegno alla sua «democrazia guidata», diffidenza se non ostilità verso l’Occidente, specie gli Stati Uniti. Organizzata su modello del Komsomol, la lega dei giovani comunisti di età sovietica, con la sua nomenklatura interna dei «kommissar», «Nashi» è anche scuola di preparazione con prospettive di carriera politica o dirigenziale nelle grandi imprese degli oligarchi vicini al Cremlino, o di proprietà statale come Gazprom. A Ulyanovsk è il terzo anno che con crescente successo si tiene il 12 settembre la «Giornata del concepimento». Aderiscono oltre 500 coppie. Nel giugno scorso, premiate quelle che il 12 hanno avuto un figlio. Il primo premio è andato a una coppia che aveva già altri due bambini: un Suv «Patriota», premio speciale a una madre che ha voluto il cesareo per far nascere il pupo nel giorno della festa nazionale.
Putin ha denunciato il calo della natalità non per motivi religiosi, ma economici e militari. Ha parlato di «potenziale minaccia all’integrità e alla sicurezza dello Stato», lanciando una campagna per l’incremento delle nascite, con sussidi di 50 dollari al mese per ogni figlio e premi in servizi di circa 10mila dollari per il terzo. Non ha trattato però il costante aumento della mortalità e l’accorciamento della vita media, che in gran parte del mondo invece si allunga. L’aspettativa di vita è scesa nel 2003 a 67,66 anni, ponendo la Russia al 140° posto nel mondo; nel 2007 è previsto che cali a 65,87. Il tasso di natalità è passato da 2,08 nel 1990 a 1,17 nel 2004; quello di mortalità è salito da 10,7 nel 1988 a 16,3 nel 2004. Per 16 persone che muoiono nascono solo 10 dieci bimbi. Dagli inizi anni ’90, la popolazione russa diminuisce ogni anno di 700mila persone: il più pesante calo demografico al mondo in tempo di pace. Nella superpotenza dell’energia, come osserva lo scrittore Viktor Erofeev, «la morte trionfa sulla nascita».
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