"Organizza la tua mente in nuove dimensioni, libera il tuo corpo da ataviche oppressioni."
domenica 13 maggio 2007
Family Day : l'immensa folla si fa sentire
Sono ben oltre il milione le persone che oggi hanno affollato piazza San Giovanni per il Family Day. Invasa dal popolo delle parrocchie, dai militanti di Comunione e liberazione, dagli appartenenti a decine di altre associazioni cattoliche, e anche molti immigrati e credenti di altre religioni. Tantissimi i bambini affianco ai genitori, in piazza anche vedove e orfani ''la famiglia resta tale anche dopo la morte del papa', e anzi ha bisogno di maggior tutela''. Sgabelli da campeggio, pranzo al sacco e idee chiare: i valori della famiglia, concepita ad immagine di quella di Nazareth. In piazza , portata a braccio da alcuni volontari, ha sfilato anche la statua copia della madonna di Fatima. La stessa che, itinerante, viene custodita, a turno, in varie diocesi in tutta Italia. Sul palco l'orchestra di Pirazzoli e il cantante Povia, ma non Antonella Ruggiero che ha dato forfait per andare invece alla manifestazione 'Coraggio Laico'. I canti, i balli, i racconti e le preghiere. Se non fosse una manifestazione laica, così l’hanno pensata i promotori, si potrebbe quasi pensare ad un raduno dei Papa Boys. Nessun coro da stadio, però, a parte un cartello che inneggia al “Forza Palermo”, non ci sono slogan, né simboli politici o bandiere di partito (ho intravisto solo poche bandiere della Casa Savoia in favore della famiglia e con il papa) . Solo poche magliette con la faccia di Prodi e su una scritta: “Quest’uomo ammazza le famiglie. Tutti coloro che sono convenuti a Piazza San Giovanni oggi sono qui per dimostrare che esistono e come la pensano. Sono qui, da padri, da madri, da nonni e nipoti. Hanno attraversato l'Italia e sopportano la canicola di un lungo pomeriggio romano per ribadire che difendere la famiglia significa difendere loro, i loro figli e il futuro di entrambi. A nessuno importa davvero a che ora arriverà Berlusconi, o se la piazza dell’orgoglio laico sta ottenendo un qualche successo. Questa è una piazza a cui non va di essere strumentalizzata. Chi oggi è qui lo fa solo per dare la sua personale testimonianza, per dimostrare che la famiglia è vitalità. Dal palco le note di popolari canzoni di Celentano, Tozzi e Mia Martini. Sullo spiazzo antistante tantissime le famiglie arrivate al gran completo, con nonni, bimbi in passeggino e anche cani al seguito. Molte chitarrre, canti e balli in cerchio fra la gente.
PEZZOTTA: «RIMETTERE LA FAMIGLIA AL CENTRO» - «Noi vogliamo bene alla nostra Costituzione e per questo vogliamo che la Repubblica Italiana si rimetta al centro il tema della famiglia dal punto di vista culturale, sociale, economico e politicò. Lo ha detto Savino Pezzotta nel suo intervento finale al Family Day. «La famiglia - ha aggiunto l'ex leader della Cisl - sempre più diventa un bene e un "affare" pubblico che contribuisce a formare la coesione sociale e la qualità dello sviluppo, elementi senza i quali la repubblica deperisce. Noi volgiamo fare della famiglia una "causa nazionale" e stabilire il principio che ognuno deve poter avere i figli che vuole, senza che questo comporti una drastica diminuzione del tenore di vita».
Non e' una manifestazione contro il governo, ripetono gli organizzatori da settimane ma gli slogan e gli striscioni ''contro'' non mancano: uno su tutti ''Rosy Bindi, D.I.C.O. vergogna''. Presenti tutti i leader Cdl, oltre Berlusconi, Fini, Casini, Buttiglione, Letizia Moratti, Tremaglia, Alemanno, ma anche due ministri, Mastella e Fioroni. Nessuna voce alla politica dal palco, ma tante cosidette dichiarazioni a margine: Mastella per esempio: ''Se Rutelli fosse stato qui con le sue gambe era meglio''. E a sua volta il presidente della Margherita commentando la manifestazione dice: ''Forte e serena la voce di piazza San Giovanni. La ascolteremo''. Dello stesso avviso il ministro Rosy Bindi che commenta: una bella manifestazione da ascoltare''.
Berlusconi ha detto dietro le quinte: «La manifestazione è un segnale forte per questo governo, che non ha una vera maggioranza». Fini che ha attraversato la piazza insieme al suo portavoce e Tremaglia, saluta i partecipanti, ride e fa battute. Alla moglie di un signore che insisteva di mandare via il governo dice: << Signora condoglianze, suo marito è assillante>>.
Devo ammettere che è stato molto toccante vedere persone disabili, accompagnatori e orfani sorridere, cantare, pregare, trasmettevano una gioia e serenità che da tempo avevo dimenticato. Molti di noi hanno salute, amore, soldi e si dimenticano di sorridere alla vita e ringraziare il Signore. Chi leggerà questo articolo, senza aver partecipato, non potrà capire le emozioni che questa giornata hanno suscitato su tantissima gente. Noi eravamo oltre 1 milione e per la famiglia, nella contro manifestazione 20 mila. Mio caro governo, prendi la calcolatrice, fatti i conti, tira le somme. Gli italiani non hanno bisogno dei Dico, ma di politiche familiari. Di politiche concrete, di politiche che nella storia repubblicana non abbiamo mai avuto… dobbiamo risalire al fascismo?
martedì 8 maggio 2007
Il genocidio armeno
L'Armenia è la più antica nazione che abbracciò il cristianesimo. Ciò avvenne attorno al terzo secolo, quando un prigioniero cristiano di nome Gregorio (conosciuto dai posteri con il nome di Gregorio l'Illuminatore) salvò e convertì il sovrano Tiridates III; da questo evento seguì, in brevissimo tempo, la conversione di tutto il Paese.
Nella sua lunga storia, il cristianesimo armeno conobbe spesso persecuzioni da parte musulmana ma, tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, subì un vero e proprio genocidio (il primo della lunga serie che ha insanguinato il Novecento), messo in atto dall'impero ottomano prima e dai Giovani Turchi poi, che si accanirono contro le popolazioni armene che da sempre abitavano il territorio comprendente la parte nord-orientale dell'attuale Turchia. La regione armena, cristiana in un impero di musulmano, era sempre stata malvista dal governo della Sublime Porta. La deposizione del sultano, compiuta nel 1909 dal partito ultra-nazionalista e modernizzatore dei Giovani Turchi, aveva fatto credere per un istante agli armeni che i massacri di cui erano regolarmente vittime avrebbero presto fatto parte del passato. Ma questa illusione si era presto dissipata: il governo dei Giovani Turchi, benché laico, non era più ben disposto della vecchia dinastia ottomana nei confronti di questa razza straniera che professava una religione detestata, aveva costumi incomprensibili ed esasperava la popolazione turca locale con la prosperità dei suoi commerci e della sua agricoltura.
I massacri iniziarono nel 1909 in Cilicia, dove vennero uccisi 30.000 armeni. Tra il dicembre 1914 ed il febbraio 1915, il Comitato Centrale del partito Unione e Progresso (diretta emanazione dei Giovani Turchi) decise la soppressione totale degli Armeni: si crearono all'uopo speciali battaglioni irregolari, detti tchetè, in cui si assoldarono molti detenuti comuni, appositamente liberati. L'eliminazione sistematica prese avvio nel 1915. Tra il 24 e il 25 aprile di quell'anno, 2345 notabili armeni vennero arrestati dalla gendarmeria turca con il pretesto di sventare un complotto rivoluzionario. I notabili armeni vennero subito uccisi, con il metodo abituale dell'Islam fin dai primordi: il taglio della testa. Al primo eccidio subentrò l'ordine di deportazione immediata dell'intera popolazione armena - uomini, donne, bambini - verso una destinazione lontanissima, in un'estate torrida, attraversando regioni assetate. Si era così decretata la distruzione di tutto un popolo, colpito per il solo fatto di essere cristiano.
Di indole pacifica, gli armeni si piegarono alla deportazione senza opporre particolare resistenza, dopo essere stati obbligati a vendere tutti i loro beni ai turchi per delle somme irrisorie. Chi non aveva ottemperato al decreto di trasferimento veniva freddamente assassinato dai gendarmi. Le immense masse di deportati che attraversavano il Paese trovavano in poco tempo la morte a causa della fatica e della sete; quelli che sopravvivevano venivano decimati da bande feroci di predoni curdi, la cui presenza lungo il tragitto era incoraggiata dal governo di Istanbul. Per affrettarne la fine, le autorità arrivarono a rinchiudere gruppi di armeni in cimiteri, senza viveri né vestiti.
La lenta agonia di un intero popolo, freddamente pianificata da un governo implacabile, sta tutta in questi numeri: uomini e donne che erano due milioni e trecentomila prima della loro via crucis, rimasero, al termine del calvario, in ottocentomila. Un milione e cinquecentomila erano caduti lungo il cammino, lungo l'amarissima «via dolorosa» che l'odio e il fanatismo avevano loro inflitto. Circa centomila bambini erano stati sottratti alle famiglie cristiane per essere allevati nella fede musulmana. Era stato eliminato quasi interamente un popolo il cui unico torto era quello di esistere e di avere una fede diversa da quella professata dagli altri sudditi della terra in cui viveva.
La caduta del regime turco alla fine della prima guerra mondiale e la seguente ascesa al potere di Kemal Ataturk non cambiò la situazione: il genocidio degli Armeni continuò e si concluse solo nel 1922. Nel 1986 la sottocommissione per i diritti dell'uomo delle Nazioni Unite ha riconosciuto ufficialmente il genocidio del popolo armeno.
di Vincenzo Merlo
Nella sua lunga storia, il cristianesimo armeno conobbe spesso persecuzioni da parte musulmana ma, tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, subì un vero e proprio genocidio (il primo della lunga serie che ha insanguinato il Novecento), messo in atto dall'impero ottomano prima e dai Giovani Turchi poi, che si accanirono contro le popolazioni armene che da sempre abitavano il territorio comprendente la parte nord-orientale dell'attuale Turchia. La regione armena, cristiana in un impero di musulmano, era sempre stata malvista dal governo della Sublime Porta. La deposizione del sultano, compiuta nel 1909 dal partito ultra-nazionalista e modernizzatore dei Giovani Turchi, aveva fatto credere per un istante agli armeni che i massacri di cui erano regolarmente vittime avrebbero presto fatto parte del passato. Ma questa illusione si era presto dissipata: il governo dei Giovani Turchi, benché laico, non era più ben disposto della vecchia dinastia ottomana nei confronti di questa razza straniera che professava una religione detestata, aveva costumi incomprensibili ed esasperava la popolazione turca locale con la prosperità dei suoi commerci e della sua agricoltura.
I massacri iniziarono nel 1909 in Cilicia, dove vennero uccisi 30.000 armeni. Tra il dicembre 1914 ed il febbraio 1915, il Comitato Centrale del partito Unione e Progresso (diretta emanazione dei Giovani Turchi) decise la soppressione totale degli Armeni: si crearono all'uopo speciali battaglioni irregolari, detti tchetè, in cui si assoldarono molti detenuti comuni, appositamente liberati. L'eliminazione sistematica prese avvio nel 1915. Tra il 24 e il 25 aprile di quell'anno, 2345 notabili armeni vennero arrestati dalla gendarmeria turca con il pretesto di sventare un complotto rivoluzionario. I notabili armeni vennero subito uccisi, con il metodo abituale dell'Islam fin dai primordi: il taglio della testa. Al primo eccidio subentrò l'ordine di deportazione immediata dell'intera popolazione armena - uomini, donne, bambini - verso una destinazione lontanissima, in un'estate torrida, attraversando regioni assetate. Si era così decretata la distruzione di tutto un popolo, colpito per il solo fatto di essere cristiano.
Di indole pacifica, gli armeni si piegarono alla deportazione senza opporre particolare resistenza, dopo essere stati obbligati a vendere tutti i loro beni ai turchi per delle somme irrisorie. Chi non aveva ottemperato al decreto di trasferimento veniva freddamente assassinato dai gendarmi. Le immense masse di deportati che attraversavano il Paese trovavano in poco tempo la morte a causa della fatica e della sete; quelli che sopravvivevano venivano decimati da bande feroci di predoni curdi, la cui presenza lungo il tragitto era incoraggiata dal governo di Istanbul. Per affrettarne la fine, le autorità arrivarono a rinchiudere gruppi di armeni in cimiteri, senza viveri né vestiti.
La lenta agonia di un intero popolo, freddamente pianificata da un governo implacabile, sta tutta in questi numeri: uomini e donne che erano due milioni e trecentomila prima della loro via crucis, rimasero, al termine del calvario, in ottocentomila. Un milione e cinquecentomila erano caduti lungo il cammino, lungo l'amarissima «via dolorosa» che l'odio e il fanatismo avevano loro inflitto. Circa centomila bambini erano stati sottratti alle famiglie cristiane per essere allevati nella fede musulmana. Era stato eliminato quasi interamente un popolo il cui unico torto era quello di esistere e di avere una fede diversa da quella professata dagli altri sudditi della terra in cui viveva.
La caduta del regime turco alla fine della prima guerra mondiale e la seguente ascesa al potere di Kemal Ataturk non cambiò la situazione: il genocidio degli Armeni continuò e si concluse solo nel 1922. Nel 1986 la sottocommissione per i diritti dell'uomo delle Nazioni Unite ha riconosciuto ufficialmente il genocidio del popolo armeno.
di Vincenzo Merlo
domenica 6 maggio 2007
Dopo la Bindi ... tutti al Family Day
Strano destino quello dei ministro per la Famiglia, Rosy Bindi. Lei il giorno del Family day non sarà in piazza, o almeno non sarà nella piazza dove sono attese centinaia di migliaia di persone, tra cattolici e non, mobilitatesi da tutta Italia per difendere l’istituto della famiglia tradizionale, quella garantita dalla Costituzione, e dire no ai Dico. Chissà forse il ministro per la famiglia preferirà sfilare con i radicali, lo Sdi, Giordano e Grillini in piazza Navona, alla manifestazione del “coraggio laico” (che qualcuno ha chiamato dell’“orgoglio laico”, per assonanza), pensando che quella sì che è una mobilitazione che vale la pena sostenere a sinistra. Ma questo ancora non si sa. In attesa di conoscere le intenzioni dell’ultima ora della Bindi, una cosa è certa: a una settimana dal family day la sinistra alza i toni della polemica politica, attacca il centrodestra e prepara l’ennesima spaccatura all’interno della coalizione. La battaglia politica è dunque lanciata, nelle sue forme consuete. In un’intervista rilasciata a l’Unità Rosy Bindi parla chiaro: ministri del centrosinistra non andate in piazza. Ma Mastella e Fioroni, rispettivamente Giustizia e Scuola, proprio quelli che l’Unità ha definito “i crociati di governo”, hanno già dissentito e confermato la loro partecipazione. E molti altri politici del centrosinistra già hanno annunciato che si faranno vedere in piazza.
Ma che ne pensano gli organizzatori del FD delle ultime uscite pubbliche della Bindi? Eugenia Roccella, portavoce della Manifestazione “Più famiglia”, ribadisce qualche punto che ormai doveva essere dato per scontato. “Noi lo abbiamo ripetuto in tutti i modi questa non è una piazza contro il governo. Certo, è una mobilitazione contro i Dico. Ma quando mai criticare un provvedimento ha significato criticare l’intero operato di un governo?”. Il ministro Bindi si spinge oltre e mette in gioco la strumentalizzazione politica della manifestazione da parte del centrodestra. “Se davvero la sua intenzione è di alzare i toni della polemica politica il ministro se ne assuma la responsabilità”. Forse un vero e proprio calcolo politico anima le intenzioni del ministro per la famiglia? “Questo non lo so. So però che fino a ieri la Bindi sosteneva tutt’altro. Ci siamo incontrate, anche in Tv, e in quell’occasione abbiamo trovato molti punti in comune sulla famiglia”. Qualcosa non torna. Soprattutto se si pensa ai tempi d’uscita delle esternazioni del ministro. C’è da chiedersi, perché quelle dichiarazioni alla vigilia del family day e non un mese fa? È credibile che si tratti si una convinzione dell’ultima ora? “Certo le intenzioni del ministro Bindi potrebbero essere facilmente interpretate: se si riesce a far passare l’idea che il family day è una manifestazione politicizzata e strumentalizzata dal centrodestra si depotenzia la sua portata. E quindi, via libera ai Dico e a quello che seguirà. Ma, mi dispiace per la Bindi, quella di sabato prossimo in piazza San Giovanni sarà una mobilitazione si massa che parte dalla società civile. Chi verrà lo farà in nome dei valori e non dell’appartenenza partitica. E questo la politica non potrà ignorarlo”. E la politica è soprattutto il ministro per la Famiglia, o almeno così dovrebbe. “Ovviamente”.
Però una cosa la Bindi la sottolinea in più occasioni, e cioè: il Family day non è stato mai organizzato durante gli anni del governo Berlusconi, un quinquennio durante il quale si è fatto ben poco per le famiglie italiane. Forse il ministro dovrebbe decidere qual è il motivo per cui si scende in piazza – contro i Dico o in favore della famiglia – o qualcosa di fondato c’è nelle sue parole? “Sono almeno due i motivi per cui questa grande manifestazione di piazza si farà. Primo: il governo Prodi ha istituito il ministero per la Famiglia. Un’iniziativa meritoria. Eravamo tutti pieni di aspettative. Ci siamo immaginati finalmente qualcuno che avesse a cuore i problemi della famiglia. Ci siamo illusi che la famiglia, che io reputo la cellula di mediazione tra l’individuo e lo stato, venisse finalmente messa al centro dell’agenda politica nel nostro paese, dopo decenni di disinteresse. Insomma, eravamo pronti a grandi cose. E invece il ministro che fa? La legge sui Dico. Il primo provvedimento che il primo ministro per la Famiglia appoggia è la formalizzazione una declinazione al plurale della famiglia. La messa in discussione dei fondamenti dell’istituzione che avrebbe dovuto difendere e garantire. E allora il problema non è quello che non ha fatto Berlusconi è quello che ha fatto la Bindi”. Lei ha detto: due i motivi per organizzare il FD oggi e non tre anni fa. Il secondo? “E’ strettamente connesso a quanto ho detto: nonostante decenni di disattenzione la famiglia ha resistito, è sopravvissuta. Ma solo ora cominciano a sentirsi i primi scricchiolii, si cominciano ad intravedere i primi segni di cedimento: la denatalità è quello più eloquente. Rischiamo di essere una nazione senza giovani, e quindi senza futuro. Nessuna riforma delle pensioni può reggere al problema della denatalità, dobbiamo aiutare le giovani coppie a costruire il loro futuro. Insomma, servono politiche audaci, e con la massima urgenza. Non i Dico. Da parte nostra nessuno nega i diritti dei conviventi. Quel provvedimento è sbagliato nel metodo, non nel merito. Ma su un ultimo punto vorrei soffermarmi”. E cioè? “Sull’esplicita richiesta ai ministri di non scendere in piazza. Ma come? La sinistra ha a gridato allo scandalo, all’ingerenza, all’attentato alla laicità dello stato e alla libertà degli individui quando la chiesa ha dato delle indicazioni ai politici cattolici sui Dico. Ma non è forse illiberale impedire ai ministri di manifestare in favore di ciò in cui credono, anche quando, o forse soprattutto, quando si ricopre un incarico istituzionale?”. Una domanda a cui solo la Bindi può rispondere
*l'articolo riportato è stato scritto nel quotidiano "l'Occidentale"
sabato 5 maggio 2007
Andrea Rivera andrà a San Remo?
A me è parso incredibile che il concerto per la festa del lavoro - già da tempo divenuto tutt'altro - potesse diventare anche l'ennesima occasione per dare addosso alla Chiesa, per di più in diretta Rai pagata dal contribuente.
Certo il Papa è un bersaglio facile: non risulta che faccia querele o chieda il risarcimento dei danni. Lo si può sbertucciare gratuitamente e con l'appplauso corrivo di un gran pubblico. A poco o a nessun prezzo si passa per moderni, laici e liberali. E magari anche per coraggiosi fustigatori del potere oscuro del Vaticano.
Il Papa non chiede ai suoi fedeli di andare a bruciare le sedi dei sindacati organizzatori del concerto, come invece facevano gli Imam di tutto il mondo arabo contro le ambasciate occidentali ai tempi delle vignette. Lo sprovveduto Rivera non sarà certo costretto a girare sotto scorta, come è accaduto al direttore del quotidiano danese che le pubblicò, per timore di qualche folle fondamentalista cattolico.
Siamo piuttosto propensi a credere che raccoglierà una certa notorietà dalle sue sparate - già radio e tv lo inseguono per un'intervista o un'ospitata - e magari alla fine ce lo ritroveremo a condurre San Remo.
La sua libertà di espressione non solo è intatta ma risulta rivalutata al borsino delle celebrità.
In tutto questo l'unica reazione visibile della Chiesa è stato un articolo di condanna del quotidiano della Santa Sede, l'Osservatore Romano. Un giornale che quelli che si sono scandalizzati non hanno probabilmente mai letto o comprato in vita loro.
A quanto si capisce dai commenti neppure questo sarebbe consentito alla Chiesa. Si è trattato - secondo molti - di una reazione esagerata, illiberale, censoria, indegna della Chiesa. Dal che si capiscono due cose: che la libertà di espressione vale per tutti, persino per l'ultimo dei comici, ma non per la bimillenaria esperienza dei cristiani e dei loro pastori. E che l'unica cosa degna della Chiesa è il silenzio e forse il martirio visti i tempi e le minacce che corrono.
Nella grande chiacchiera che imperversa e avvelena quest'epoca, tutto è diritto, tutto è dovuto, tutto dev'essere a prezzo di saldo. Vale per i funerali del povero Piergiorgio Welby come per tante altre cose che ci spettano solo perchè le vogliamo. Per questo alla fine ci meritiamo Andrea Rivera. E guai a chi lo tocca.
giovedì 3 maggio 2007
GROSSO PROBLEMA DELLA DESTRA : difendere la nostra identità
La destra, in tutto il mondo, si chiama conservatrice. Per una ragione specifica e nobile, la quale è stata illustrata nei secoli da eminenti studiosi e leader politici. Perché la destra ritiene che, senza la conservazione delle tradizioni e il loro aggiustamento lento e graduale, non c’è mantenimento di identità, e senza mantenimento di identità c’è solo l’avventura delle rivoluzioni. Per questo la destra è gradualista, è sperimentalista, procede per tentativi e correzioni di errori. Per questo è riformista. Per la destra le riforme sono la risposta provvisoria alle lacune rinvenute in una tradizione, non un salto in un’altra tradizione.
Ma la destra in Italia è sconcertante perché ha due caratteristiche che la distinguono da quella del resto del mondo occidentale. Non ama definirsi destra e detesta di chiamarsi conservatrice. Ora, le parole hanno il loro peso simbolico e si capisce che in un paese in cui destra ha significato nazionalismo e conservazione ha significato privilegi, questi termini sono sospetti e stereotipati. Ma, dietro i termini, stanno i concetti e, dietro i concetti, le politiche.
E allora, riguardo alle politiche, ci si chiede: vuole la destra caratterizzarsi come la porta bandiera della nostra tradizione cristiana? Vuole rifiutare relativismo e laicismo? Capisce che il multiculturalismo è un veleno, che il pacifismo è una resa, che il dialogo così come oggi è concepito è una trappola? Vuole allora, la destra, mettere in discussione questa Europa, cioè questa Unione Europea? L’impressione è che talvolta non lo voglia. Anzi, che, per difetto culturale, sia debitrice del vocabolario della cultura dominante. E così accade di vedere che la destra si oppone alla sinistra senza conoscerne la vera ragione; che si oppone all’islamismo e difende le nostre radici cristiane (quando le difende), ma non ne avverte il peso e il valore.
Tante volte, al contrario, si sente dire: sono di destra, ma sono laico, sono di destra ma sono moderno, sono di destra ma sono liberale, sono di destra ma sono per Israele, sono di destra ma sono per la Palestina. Quei ma sono di troppo e rivelano spesso sensi di inferiorità. Per questo non è infrequente trovare chi, per non sentirsi inferiore, a destra pensa, ad esempio, che la Chiesa esageri, che il multiculturalismo sia una soluzione ragionevole ai problemi dell’integrazione, che il laicismo offra maggiori garanzie di libertà. Per questo s’è sentito il leader di un partito di centrodestra dichiarare che, sul matrimonio omosessuale, egli è “per la libertà di coscienza”. Torno allora al punto. Difendere la nostra identità è il compito soprattutto del centrodestra. Per rinnovare un sistema di partiti, per mettere in piedi un partito unico, per offrire una prospettiva, occorre una cornice ideale, da cui nasca un programma, a cui si ispiri un’azione politica. O la destra capisce che la difesa della nostra identità è il primo punto di quel programma oppure la destra, e noi tutti con essa, avrà perso assai di più delle elezioni.
martedì 1 maggio 2007
Laicisti di Bruxelles
Per chi come noi è contro la riduzione della religione – di ogni religione – a fatto meramente privato ma, allo stesso tempo, sa cosa sia costato portare la democrazia in un paese islamico, l’attuale situazione della Turchia pone una questione di limite.
Fin quando le correnti islamiche moderate rispettano la distinzione (che non è separazione) tra lo Stato e la religione, nessun intervento è legittimo. Ma qualora quella distinzione la si stesse mettendo in dubbio, con il rischio di annullare il processo democratico, allora intervenire e per tempo più che lecito sarebbe necessario.
Eravamo convinti che nella laicista Bruxelles non si vivessero queste ambasce laiche. E che, all’unisono, ci si stesse mobilitando per salvare il legato d’Ataturk, senza se e senza ma. Non potete immaginare la nostra sorpresa quando abbiamo appreso che, invece, l’Europa abbia detto ai militari turchi di non preoccuparsi di possibili attentati alla laicità dello Stato. E questo il giorno dopo aver approvato una mozione contro gli attentati alla laicità praticati da quel "terrorista" presidente della Cei, Angelo Bagnasco.
D’un tratto abbiamo compreso ancora meglio perché le radici cristiane siano state espunte dal trattato. E i dubbi sull’ingresso della Turchia in Europa si sono fatti più forti: non perché si diffidi della Turchia ma perché non ci si fida più dell’Europa!
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