"Organizza la tua mente in nuove dimensioni, libera il tuo corpo da ataviche oppressioni."
venerdì 18 aprile 2008
Il "Portale delle libertà" finisce in copertina
Come sapete qualche mese fa siamo apparsi su molti giornali per la questione del Papa a "La Sapienza" ma, non sapevamo di essere finiti sulla copertina di un libro.Non so se vale la pena di comprarlo ma...è fico essere sulla copertina di un libro!
Se volete comprarlo cliccate qui
Se volete ascoltare la presentazione qui
mercoledì 16 aprile 2008
Totò e la malafemmina italiana
Negli ultimi giorni il popolo italiano ha vissuto ore di ansia, di paura e di speranza a causa delle politiche. Finalmente abbiamo un nuovo governo con un'ampia maggioranza in grado di governare. La cosa che mi ha fatto esaltare più di tutte è l'esclusione di partiti fanta-ideologici, ricattatori, laicisti (no laici!) e anti-sviluppo.
Ad un certo punto scopro una cosa molto triste, non volevo crederci ma, è la realtà:
In Sicilia hanno eletto Totò Cuffaro senatore!!!!!!!
Salvatore Cuffaro è uscito dalla porta ed è rientrato dalla finestra... O meglio: per Salvatore Cuffaro, costretto a dimettersi da presidente della Regione per essere stato condannato in primo grado a 5 anni di reclusione, si è chiusa una porta e si è aperto un portone. E che portone!
L'ex governatore siciliano, infatti, da Palermo si trasferisce a Roma dove occuperà una poltrona del Senato, che si è ''guadagnato'' grazie al 10% dei consensi ottenuto in Sicilia al Senato.
Ma siamo pazzi!? Ma i siciliani sono ingenui o sono davvero mafiosi (o almeno lo è il 10%)?
L'ex governatore siciliano ha già depositato formalmente al Tar del Lazio il ricorso amministrativo per contestare la legittimità del decreto con il quale il presidente del Consiglio Romano Prodi lo ha sospeso dalla carica dopo la sua condanna a cinque anni di reclusione per favoreggiamento.
L'entusiasmo per i risultati elettorali è calato man mano che venivo a conoscenza dell'accaduto siciliano. Su questo blog c'era un sondaggio che chiedeva quanti condannati sarebbero entrati a far parte del parlamento e il 51% ha risposto più di 10. Tra questi sicuramente c'è un pezzo grosso.
Per chi non conoscesse i precedenti giudiziali di Cuffaro vi invito a leggere cosa c'è scritto su internet, su Youtube o qui sotto (preso da Wikipedia):
Cuffaro ha ricevuto il suo primo avviso di Garanzia per una presunta tangente intascata dall'eurodeputato Salvo Lima nel 1993. L'indagine era partita dalle dichiarazioni di un pentito, che però si rivelarono subito false, in quanto Lima nel 1993 era già morto.
Durante la sua prima presidenza alla Regione Siciliana Cuffaro è entrato, insieme ad altri, nel registro degli indagati per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa nell'ambito dell'inchiesta sui rapporti tra il clan di Brancaccio e ambienti della politica locale.[4] Con gli elementi raccolti, gli inquirenti ritengono che, attraverso l' intermediario Miceli (precedentemente assessore UDC al Comune di Palermo, legato a Cuffaro) e grazie alle talpe presenti nella Direzione distrettuale antimafia di Palermo, Cuffaro abbia informato Giuseppe Guttadauro, boss mafioso ma anche collega medico di Miceli all'Ospedale Civico di Palermo, e Michele Aiello, il più importante imprenditore siciliano, indagato per associazione mafiosa, di notizie riservate legate alle indagini in corso che li vede coinvolti. Nel settembre del 2005, Cuffaro per questi fatti, negati dall'interessato, è stato rinviato a giudizio per favoreggiamento aggravato alla Mafia e rivelazione di notizie coperte da segreto istruttorio, mentre non è stata accolta l'accusa di concorso esterno. Secondo il GUP è accertato che abbia fornito all'imprenditore Aiello informazioni fondamentali per sviare le indagini, grazie a una fonte non ancora nota, incontrandolo da solo in circostanze sospette, riferendo che le due talpe che gli fornivano informazioni sulle indagini che lo riguardavano erano state scoperte. Nell'incontro, anche una discussione riguardante l'approvazione del tariffario regionale da applicarsi alle società di diagnosi medica posseduta dall'imprenditore. Aiello ha ammesso entrambi i fatti, Cuffaro afferma soltanto che si sia discusso delle tariffe. Il GUP ipotizza inoltre che il mafioso Guttadauro sia venuto a conoscenza da Cuffaro delle microspie, in funzione del suo rapporto con Aiello, sempre per via del contatto con i due marescialli corrotti, in servizio ai nuclei di polizia giudiziaria della Procura di Palermo, uno dei quali è stato l'autore del piazzamento delle microspie. Secondo una perizia ordinata dal tribunale nel corso del processo a Miceli, nei momenti in cui si è scoperta a casa di Guttadauro la microspia, sarebbero state confermate le testimonianze secondo le quali la moglie del boss mafioso ha dato merito a Totò Cuffaro del ritrovamento.[5]
Nel dicembre 2006, Miceli è stato condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa.[6]
Il 15 ottobre 2007 il procuratore aggiunto del processo a Cuffaro Giuseppe Pignatone ha chiesto 8 anni di reclusione per l'attuale Presidente della Regione Sicilia, per quanto riguarda i seguenti capi d'imputazione:
1. favoreggiamento a Cosa Nostra
2. rivelazione di segreto d'ufficio
Il 18 gennaio 2008 Cuffaro viene dichiarato colpevole di favoreggiamento semplice nel processo di primo grado per le 'talpe' alla Dda di Palermo e condannato a 5 anni di reclusione e interdizione perpetua dai pubblici uffici. La Corte non lo ha ritenuto responsabile di aver favorito l'organizzazione mafiosa. Cuffaro assiste alla lettura della sentenza nell'aula bunker di Pagliarelli, e dichiara immediatamente di non essere intenzionato ad abbandonare il suo ruolo di presidente della regione Sicilia. Nel frattempo, la pubblicazione di una serie di foto che lo ritraggono con un vassoio di cannoli, mentre apparentemente festeggia per non essere stato condannato per favoreggiamento della mafia,[9] provoca un grande imbarazzo. [10] Il 24 gennaio 2008 l'Assemblea regionale siciliana respinge la mozione di sfiducia (53 voti a 32) presentata dal centro sinistra. [11] Nonostante il voto di fiducia del Parlamento siciliano, Cuffaro si dimette due giorni dopo, nel corso di una seduta straordinaria dell'Assemblea.
In bocca al lupo Italia!!!!!
mercoledì 9 aprile 2008
La Bindi ha lavorato molto...
A noi Rosy Bindi sta così simpatica che non possiamo non parlare sempre di lei. L’ultima che ha combinato, dopo due anni da ministro della Famiglia in cui non si è segnalata pressoché per nulla, se non una furibonda battaglia sul nulla dei Dico, ha nominato tutti suoi amici nell’Osservatorio nazionale sulla famiglia. L’organismo, voluto nel 2004 dall’ex ministro Roberto Maroni, era nato con lo scopo di fornire studi di settore sulle problematiche inerenti il tema. Sede a Bologna, pochi membri, scelte bipartisan. Bindi ha atteso due anni, e due settimane dalle elezioni, per rendere noti i nomi dei nuovi dirigenti dell’Osservatorio. Intanto ha triplicato le sedi (Bologna, Bari, Roma), nominato 46 membri, di cui “di diritto” i sindaci Nichi Vendola e Sergio Cofferati (noti per le loro lotte a favore di mamme e papà), fatto fuori l’ex direttore Pierpaolo Donati (unanimemente riconosciuto come uno dei migliori studiosi in materie di politiche familiari) e gli esperti dell’università Cattolica di Milano, messo sulla sedia della vicepresidenza Renato Balduzzi, suo consigliere ed estensore della bozza Dico. Non lontane dalla realtà, dunque, le critiche di chi vi vede un «Osservatorio formato Dico» o un «Bindiosservatorio». I nominati, infatti, rimarranno in carica tre anni, e ci pare proprio difficile che con il prossimo governo possano andare d’amore e d’accordo. A guadagnarci solo le famiglie della Bindi. A sudare le famiglie italiane che non possono permettersi nemmeno il lusso di un doppio figlio
In Italia se mantieni due figli ti scalano mille euro dalle tasse. Se finanzi un partito, tremila.
In Italia oggi sposarsi non conviene. Dal punto di vista economico lo Stato (purtroppo) discrimina il matrimonio rispetto ad altre scelte di vita, anche se la Costituzione è molto chiara a tal proposito, dedicando ben tre commi alla sua difesa e sostegno. Il nostro sistema fiscale è un tipico esempio dell’indifferenza dello Stato nei confronti del contributo fornito dalla famiglia al bene comune. La penalizzazione fiscale che essa subisce rispetto ai grandi paesi come la Germania e la Francia è una grave anomalia. In Italia una famiglia composta da 4 persone con coniuge e due figli a carico e il cui reddito è di 25 mila euro paga 1.750 euro di tasse, in Germania 628 e in Francia solo 52. Le differenze sono abissali e accentuate dal confronto con la tassazione di cui è oggetto il single perché, a parità di reddito, chi non ha famiglia paga poco più di chi ha un carico familiare.
Non è certamente equo considerare che la famiglia possa vivere “come se” avesse un reddito disponibile uguale a quello della persona che vive da sola. Senza contare che le spese sostenute per il mantenimento dei figli sono spese che vanno a beneficio della società, perché il primo e principale contributo al bene comune risiede nella procreazione, nel mantenimento e nell’educazione delle nuove generazioni, senza le quali la società si estinguerebbe. Come si sa, l’Italia è afflitta dal deficit demografico molto più che dal deficit dei conti pubblici. Siamo il paese con il tasso di fertilità più basso d’Europa con 1,3 figli per donna, ma anche il tasso di occupazione femminile più basso (il 45,7 per cento). Il fatto che le donne che stanno a casa facciano più figli è sfatato dalla realtà; ad esempio, nei paesi nordici come la Svezia, la partecipazione al lavoro femminile è del 70, 80 per cento e il tasso di fertilità del 2,3 per cento. Da noi una coppia su 5 non ha figli e il 53 per cento delle famiglie ne ha uno solo, anche se molti desidererebbero il secondo. La Francia – regina d’Europa con le sue 800 mila nascite e i 2 figli in media per donna – è considerata la nazione che eroga più risorse per la famiglia e per i figli dedicando il 12 per cento della spesa locale contro meno del 4 per cento dell’Italia. Massima attenzione è data per sostenere il lavoro femminile, come pure per politiche in cui è tenuta in particolare considerazione il ciclo di vita delle persone: la crescita dei figli, specie nei primi anni di vita, la cura degli anziani e dei membri deboli della famiglia. È necessario perciò anche nel nostro paese un notevole investimento in servizi alla prima infanzia e il potenziamento e il sostegno di strumenti che rendano più agevoli e non penalizzanti uscite e rientri nel mondo del lavoro, la modulazione degli orari, l’accompagnamento di carriere, la formazione. Si potrebbe così invertire la tendenza che porta la donna a procrastinare l’età della maternità vedendosi spesso costretta, perché troppo tardi, a dover rinunciare a esaudire questo suo sacrosanto desiderio. Occorre agire su più fronti: dai servizi all’infanzia alle politiche di conciliazione. L’obiettivo alla fine è garantire alle donne una vera libertà cioè di non dover scegliere tra figli e lavoro, ma di poter realizzare entrambi i desideri o, a pari dignità, l’esclusiva cura della famiglia.
L’altra leva fondamentale per sbloccare l’economia e questa “anoressia riproduttiva” di cui l’Italia è malata è senz’altro quella fiscale. Fin dall’inizio della sua attività, il Sidef (Sindacato delle famiglie) ha ritenuto che il problema fiscale fosse di primaria importanza nella formazione e nel mantenimento della famiglia. Sin dall’inizio abbiamo insistito sul fatto che fosse quanto mai necessaria una riforma che commisurasse i redditi e le conseguenti tassazioni ai diversi carichi familiari, il cui peso è determinante per valutare la reale capacità contributiva residua di una famiglia. Per questo abbiamo aderito con entusiasmo nel sostenere la petizione promossa dal Forum delle famiglie che chiede di poter dedurre dal reddito imponibile il minimo vitale annuo necessario per il mantenimento di ogni figlio e familiare a carico, calcolato intorno ai 7.500 euro all’anno.
Il pupo di lusso
Attualmente, invece, riferendosi ad un lavoratore con un reddito di 25 mila euro, se ne spende 15 mila per mantenere due figli, beneficia di un risparmio di imposta di appena 1.000 euro. Se la stessa cifra viene però versata per sostenere un partito il risparmio sale a 3 mila euro. Questo perché i partiti sono considerati un bene sociale importante per un paese, mentre i figli sono considerati un fatto privato: li metti al mondo solo se te li puoi permettere, alla stregua di un bene voluttuario di lusso. Nella petizione si chiede che la deduzione sia possibile a tutte le famiglie e senza tetto di reddito, perché sia riconosciuto un valore e un bene per tutti la procreazione e l’educazione delle nuove generazioni del nostro paese il cui lavoro servirà, tra l’altro, a mantenere la pensione dei single di oggi. In Italia si può detrarre di tutto senza tetto di reddito: la rottamazione delle auto, dei motorini, la ristrutturazione delle case, la palestra e addirittura le mance date ai croupier dei casinò; non così per i familiari o per i figli, non riconosciuti come un bene per la nazione e un patrimonio comune.
In questa battaglia le famiglie sono chiamate ad essere protagoniste. Non ci si può solo lamentare, ma occorre attivarsi, insieme, richiamandosi a questa responsabilità. La petizione è un modo per riportare l’attenzione su un problema che non ha avuto la minima considerazione da parte dell’ultimo governo, nonostante tutte le richieste e le promesse fatte. La nostra proposta non ha solo l’immediato significato di modulare la politica fiscale sulla misura della famiglia anziché su quella dell’individuo singolo, né si presenta solo come un espediente tecnico per sollevare i nuclei familiari dal peso fiscale diventato insopportabile: contiene invece, concettualmente ed operativamente, una rivoluzione culturale che investe la concezione del rapporto tra cittadino e Stato, soprattutto in ordine ad una ridefinizione dei tre capisaldi del sistema e dell’apparato fiscale: la nozione di contribuente, di capacità contributiva, di reddito imponibile.
Anzitutto se contribuente indica chi offre il suo tributo monetario alla comunità in un’ottica di redistribuzione delle risorse a tutti sotto forma di servizi, il porre una quota di deduzione aiuta a mostrare che non esistono nella società solo degli individui singoli, ma che esistono dei soggetti sociali (come la comunità familiare che è il più originario corpo intermedio tra individuo e società) da tutelare allo stesso modo dell’individuo. Perciò la capacità contributiva non può essere determinata come somma dei redditi dei vari membri della famiglia, ma deve essere computata tenendo conto del contributo che la famiglia già offre alla società occupandosi dei soggetti che la compongono, sgravando riguardo a essi lo Stato da oneri assistenziali ed educativi (pensiamo al contributo offerto dall’impegno educativo dei genitori o agli oneri che la famiglia assume in proprio per il mantenimento e la cura dei figli).
Contribuire al bene della società
Da qui la nuova definizione di reddito imponibile, identificato con la deduzione all’origine dal reddito effettivo della quota di mantenimento dei soggetti non economicamente produttivi, dal momento che la contribuzione non coincide con l’applicazione meccanica di un’aliquota progressiva sul reddito tout court, ma deve considerare qual è il reddito veramente tassabile per contribuire alla società. In questo modo, nell’ambito di una futura complessiva riforma del sistema fiscale sarà possibile introdurre strumenti quali il “quoziente familiare” che abbiano alla base, come soggetto imponibile, non più l’individuo, ma il nucleo familiare.
Il valore pedagogico delle leggi è enorme, gli effetti di audaci politiche familiari, come una vera riforma fiscale per la famiglia che tutti attendono, saranno apprezzati nel lungo termine, ma non si può sperare che l’Italia cresca senza ridare centralità alla famiglia come soggetto sociale.
*presidente del Sindacato delle famiglie
Non è certamente equo considerare che la famiglia possa vivere “come se” avesse un reddito disponibile uguale a quello della persona che vive da sola. Senza contare che le spese sostenute per il mantenimento dei figli sono spese che vanno a beneficio della società, perché il primo e principale contributo al bene comune risiede nella procreazione, nel mantenimento e nell’educazione delle nuove generazioni, senza le quali la società si estinguerebbe. Come si sa, l’Italia è afflitta dal deficit demografico molto più che dal deficit dei conti pubblici. Siamo il paese con il tasso di fertilità più basso d’Europa con 1,3 figli per donna, ma anche il tasso di occupazione femminile più basso (il 45,7 per cento). Il fatto che le donne che stanno a casa facciano più figli è sfatato dalla realtà; ad esempio, nei paesi nordici come la Svezia, la partecipazione al lavoro femminile è del 70, 80 per cento e il tasso di fertilità del 2,3 per cento. Da noi una coppia su 5 non ha figli e il 53 per cento delle famiglie ne ha uno solo, anche se molti desidererebbero il secondo. La Francia – regina d’Europa con le sue 800 mila nascite e i 2 figli in media per donna – è considerata la nazione che eroga più risorse per la famiglia e per i figli dedicando il 12 per cento della spesa locale contro meno del 4 per cento dell’Italia. Massima attenzione è data per sostenere il lavoro femminile, come pure per politiche in cui è tenuta in particolare considerazione il ciclo di vita delle persone: la crescita dei figli, specie nei primi anni di vita, la cura degli anziani e dei membri deboli della famiglia. È necessario perciò anche nel nostro paese un notevole investimento in servizi alla prima infanzia e il potenziamento e il sostegno di strumenti che rendano più agevoli e non penalizzanti uscite e rientri nel mondo del lavoro, la modulazione degli orari, l’accompagnamento di carriere, la formazione. Si potrebbe così invertire la tendenza che porta la donna a procrastinare l’età della maternità vedendosi spesso costretta, perché troppo tardi, a dover rinunciare a esaudire questo suo sacrosanto desiderio. Occorre agire su più fronti: dai servizi all’infanzia alle politiche di conciliazione. L’obiettivo alla fine è garantire alle donne una vera libertà cioè di non dover scegliere tra figli e lavoro, ma di poter realizzare entrambi i desideri o, a pari dignità, l’esclusiva cura della famiglia.
L’altra leva fondamentale per sbloccare l’economia e questa “anoressia riproduttiva” di cui l’Italia è malata è senz’altro quella fiscale. Fin dall’inizio della sua attività, il Sidef (Sindacato delle famiglie) ha ritenuto che il problema fiscale fosse di primaria importanza nella formazione e nel mantenimento della famiglia. Sin dall’inizio abbiamo insistito sul fatto che fosse quanto mai necessaria una riforma che commisurasse i redditi e le conseguenti tassazioni ai diversi carichi familiari, il cui peso è determinante per valutare la reale capacità contributiva residua di una famiglia. Per questo abbiamo aderito con entusiasmo nel sostenere la petizione promossa dal Forum delle famiglie che chiede di poter dedurre dal reddito imponibile il minimo vitale annuo necessario per il mantenimento di ogni figlio e familiare a carico, calcolato intorno ai 7.500 euro all’anno.
Il pupo di lusso
Attualmente, invece, riferendosi ad un lavoratore con un reddito di 25 mila euro, se ne spende 15 mila per mantenere due figli, beneficia di un risparmio di imposta di appena 1.000 euro. Se la stessa cifra viene però versata per sostenere un partito il risparmio sale a 3 mila euro. Questo perché i partiti sono considerati un bene sociale importante per un paese, mentre i figli sono considerati un fatto privato: li metti al mondo solo se te li puoi permettere, alla stregua di un bene voluttuario di lusso. Nella petizione si chiede che la deduzione sia possibile a tutte le famiglie e senza tetto di reddito, perché sia riconosciuto un valore e un bene per tutti la procreazione e l’educazione delle nuove generazioni del nostro paese il cui lavoro servirà, tra l’altro, a mantenere la pensione dei single di oggi. In Italia si può detrarre di tutto senza tetto di reddito: la rottamazione delle auto, dei motorini, la ristrutturazione delle case, la palestra e addirittura le mance date ai croupier dei casinò; non così per i familiari o per i figli, non riconosciuti come un bene per la nazione e un patrimonio comune.
In questa battaglia le famiglie sono chiamate ad essere protagoniste. Non ci si può solo lamentare, ma occorre attivarsi, insieme, richiamandosi a questa responsabilità. La petizione è un modo per riportare l’attenzione su un problema che non ha avuto la minima considerazione da parte dell’ultimo governo, nonostante tutte le richieste e le promesse fatte. La nostra proposta non ha solo l’immediato significato di modulare la politica fiscale sulla misura della famiglia anziché su quella dell’individuo singolo, né si presenta solo come un espediente tecnico per sollevare i nuclei familiari dal peso fiscale diventato insopportabile: contiene invece, concettualmente ed operativamente, una rivoluzione culturale che investe la concezione del rapporto tra cittadino e Stato, soprattutto in ordine ad una ridefinizione dei tre capisaldi del sistema e dell’apparato fiscale: la nozione di contribuente, di capacità contributiva, di reddito imponibile.
Anzitutto se contribuente indica chi offre il suo tributo monetario alla comunità in un’ottica di redistribuzione delle risorse a tutti sotto forma di servizi, il porre una quota di deduzione aiuta a mostrare che non esistono nella società solo degli individui singoli, ma che esistono dei soggetti sociali (come la comunità familiare che è il più originario corpo intermedio tra individuo e società) da tutelare allo stesso modo dell’individuo. Perciò la capacità contributiva non può essere determinata come somma dei redditi dei vari membri della famiglia, ma deve essere computata tenendo conto del contributo che la famiglia già offre alla società occupandosi dei soggetti che la compongono, sgravando riguardo a essi lo Stato da oneri assistenziali ed educativi (pensiamo al contributo offerto dall’impegno educativo dei genitori o agli oneri che la famiglia assume in proprio per il mantenimento e la cura dei figli).
Contribuire al bene della società
Da qui la nuova definizione di reddito imponibile, identificato con la deduzione all’origine dal reddito effettivo della quota di mantenimento dei soggetti non economicamente produttivi, dal momento che la contribuzione non coincide con l’applicazione meccanica di un’aliquota progressiva sul reddito tout court, ma deve considerare qual è il reddito veramente tassabile per contribuire alla società. In questo modo, nell’ambito di una futura complessiva riforma del sistema fiscale sarà possibile introdurre strumenti quali il “quoziente familiare” che abbiano alla base, come soggetto imponibile, non più l’individuo, ma il nucleo familiare.
Il valore pedagogico delle leggi è enorme, gli effetti di audaci politiche familiari, come una vera riforma fiscale per la famiglia che tutti attendono, saranno apprezzati nel lungo termine, ma non si può sperare che l’Italia cresca senza ridare centralità alla famiglia come soggetto sociale.
*presidente del Sindacato delle famiglie
lunedì 7 aprile 2008
Attenzione allo stress da blog, può uccidere!
Ansia, insonnia e obesità, combinati ad assenza di esercizio fisico, sonno e dieta irregolare e malsana
(da abc.net.au)
NEW YORK - La morte arriva col blog: lo stress di tenere aggiornato 24 ore su 24 un diario online combinato con l'assenza di esercizio fisico e di sonno e con una dieta irregolare e malsana, sono un cocktail potenzialmente letale che ha cominciato a mietere vittime nel mondo del web. Due settimane fa a Fort Lauderdale (Florida) è stato celebrato il funerale di Russell Shaw, un prolifico blogger di temi tecnologici morto improvvisamente di infarto a 60 anni. In dicembre un altro blogger suo amico, Marc Orhant, era finito sottoterra per un esteso blocco alle coronarie. Un terzo, Om Malik, ha avuto un infarto negli stessi giorni ma ce l'ha fatta: ha appena 41 anni.
Sono casi isolati o la punta di un iceberg? Se lo è chiesto domenica il New York Times raccogliendo le lamentele di altri «diaristi» della rete che hanno perso peso o sono diventati obesi, che non riescono più a dormire regolarmente o crollano esausti sulla tastiera: tutti disturbi, se non proprio malattie, attribuite allo stress di dover produrre notizie in un ciclo di informazione non stop in cui la concorrenza è spesso feroce. Alcuni di quelli che erano nati come diari online sono in effetti diventati negli ultimi anni veri e propri produttori di informazione che fanno concorrenza ai media tradizionali sul fronte della pubblicità. La pressione è enorme soprattutto per i free lance, navigatori della rete pagati spesso neanche dieci dollari a pezzo, ma anche chi sui blog ha costruito una fortuna ha motivo di preoccuparsi.
«Non sono ancora morto, ma presto finirò in ospedale con l'esaurimento nervoso», ha detto Michael Arrington, fondatore e direttore di TechCrunch, un popolare blog sulle nuove tecnologie che rastrella milioni di dollari in pubblicità. Arrington, che è ingrassato di 15 chili in tre anni, ha attribuito allo stress da blog il fatto che ora soffre gravemente di insonnia: «Sono arrivato a un punto di rottura». Non è da oggi che i blogger denunciano pubblicamente contraccolpi fisici del loro mestiere: è un leit motiv dei diaristi online lamentarsi della fatica perennemente in agguato per chi passa buona parte della giornata e spesso della notte a smanettare sul computer a caccia di informazione.
Molti blogger sono pagati a pezzo, altri a numero di lettori, in una gerarchia retributiva che ripaga lo scoop anche se appena di pochi minuti. La velocità in questi casi è tutto: «Non c'è una volta, neanche quando dormi, che non ti viene l'ansia di avere preso un buco», ha detto Addington al New York Times. Tanto i blogger sono consapevoli dei rischi del mestiere che alcuni di loro hanno preso a scambiarsi consigli su come farvi fronte. Un mese fa su Problogger.com l'australiano Darren Rowse, che contribuisce a una ventina di blog oltre ai due da lui curati, ha offerto ai suoi lettori un piccolo manuale di sopravvivenza: tra i consigli, quello di «tagliare le catene della scrivania» e «tornare a buttar giù idee su taccuini di carta».
(da abc.net.au)
NEW YORK - La morte arriva col blog: lo stress di tenere aggiornato 24 ore su 24 un diario online combinato con l'assenza di esercizio fisico e di sonno e con una dieta irregolare e malsana, sono un cocktail potenzialmente letale che ha cominciato a mietere vittime nel mondo del web. Due settimane fa a Fort Lauderdale (Florida) è stato celebrato il funerale di Russell Shaw, un prolifico blogger di temi tecnologici morto improvvisamente di infarto a 60 anni. In dicembre un altro blogger suo amico, Marc Orhant, era finito sottoterra per un esteso blocco alle coronarie. Un terzo, Om Malik, ha avuto un infarto negli stessi giorni ma ce l'ha fatta: ha appena 41 anni.
Sono casi isolati o la punta di un iceberg? Se lo è chiesto domenica il New York Times raccogliendo le lamentele di altri «diaristi» della rete che hanno perso peso o sono diventati obesi, che non riescono più a dormire regolarmente o crollano esausti sulla tastiera: tutti disturbi, se non proprio malattie, attribuite allo stress di dover produrre notizie in un ciclo di informazione non stop in cui la concorrenza è spesso feroce. Alcuni di quelli che erano nati come diari online sono in effetti diventati negli ultimi anni veri e propri produttori di informazione che fanno concorrenza ai media tradizionali sul fronte della pubblicità. La pressione è enorme soprattutto per i free lance, navigatori della rete pagati spesso neanche dieci dollari a pezzo, ma anche chi sui blog ha costruito una fortuna ha motivo di preoccuparsi.
«Non sono ancora morto, ma presto finirò in ospedale con l'esaurimento nervoso», ha detto Michael Arrington, fondatore e direttore di TechCrunch, un popolare blog sulle nuove tecnologie che rastrella milioni di dollari in pubblicità. Arrington, che è ingrassato di 15 chili in tre anni, ha attribuito allo stress da blog il fatto che ora soffre gravemente di insonnia: «Sono arrivato a un punto di rottura». Non è da oggi che i blogger denunciano pubblicamente contraccolpi fisici del loro mestiere: è un leit motiv dei diaristi online lamentarsi della fatica perennemente in agguato per chi passa buona parte della giornata e spesso della notte a smanettare sul computer a caccia di informazione.
Molti blogger sono pagati a pezzo, altri a numero di lettori, in una gerarchia retributiva che ripaga lo scoop anche se appena di pochi minuti. La velocità in questi casi è tutto: «Non c'è una volta, neanche quando dormi, che non ti viene l'ansia di avere preso un buco», ha detto Addington al New York Times. Tanto i blogger sono consapevoli dei rischi del mestiere che alcuni di loro hanno preso a scambiarsi consigli su come farvi fronte. Un mese fa su Problogger.com l'australiano Darren Rowse, che contribuisce a una ventina di blog oltre ai due da lui curati, ha offerto ai suoi lettori un piccolo manuale di sopravvivenza: tra i consigli, quello di «tagliare le catene della scrivania» e «tornare a buttar giù idee su taccuini di carta».
sabato 5 aprile 2008
Ratzinger: aborto e divorzio sono colpe gravi, ma le persone vanno aiutate a riprendersi
Il Papa invita la Chiesa ad «accostarsi con attenzione materna e delicatezza a chi ne porta le ferite interiori»
Benedetto XVI
CITTÀ DEL VATICANO - Il divorzio e l'aborto restano «colpe gravi», ma la Chiesa deve «accostarsi con amore e delicatezza, con premura e attenzione materna alle persone che ne portano le ferite interiori e cercano la possibilità di una ripresa». Lo ha spiegato il Papa in Vaticano ai partecipanti al congresso L’olio sulle ferite. Una risposta alle piaghe dell’aborto e del divorzio. Secondo Benedetto XVIaborto e divorzio «ledono la dignità della persona umana, implicano una profonda ingiustizia nei rapporti umani e sociali e offendono Dio stesso, garante del patto coniugale e autore della vita».
CONGIURA DEL SILENZIO - Divorzio e aborto, che per il pontefice comportano «tanta sofferenza nella vita delle persone, delle famiglie e della società», oggi nel mondo sono circondati da «una congiura del silenzio ideologica. In un contesto culturale segnato da un crescente individualismo, dall’edonismo e da mancanza di solidarietà e di adeguato sostegno sociale, la libertà umana, di fronte alle difficoltà della vita, è portata nella sua fragilità a decisioni in contrasto con l’indissolubilità del patto coniugale o con il rispetto dovuto alla vita umana appena concepita e ancora custodita nel seno materno», ha affermato Joseph Ratzinger. «Divorzio e aborto sono scelte di natura certo differente, talvolta maturate in circostanze difficili e drammatiche, che comportano spesso traumi e sono fonte di profonde sofferenze in chi le compie», ma, nei confronti di chi se ne macchia, dice il Papa, la Chiesa deve «accostarsi con amore e delicatezza, con premura e attenzione materna. Gli uomini e le donne dei nostri giorni si trovano talvolta spogliati e feriti, ai margini delle strade che percorriamo, spesso senza che nessuno ascolti il loro grido di aiuto e si accosti alla loro pena, per alleviarla e curarla. Nel dibattito, spesso puramente ideologico, si crea nei loro confronti una specie di congiura del silenzio».
Benedetto XVI
CITTÀ DEL VATICANO - Il divorzio e l'aborto restano «colpe gravi», ma la Chiesa deve «accostarsi con amore e delicatezza, con premura e attenzione materna alle persone che ne portano le ferite interiori e cercano la possibilità di una ripresa». Lo ha spiegato il Papa in Vaticano ai partecipanti al congresso L’olio sulle ferite. Una risposta alle piaghe dell’aborto e del divorzio. Secondo Benedetto XVIaborto e divorzio «ledono la dignità della persona umana, implicano una profonda ingiustizia nei rapporti umani e sociali e offendono Dio stesso, garante del patto coniugale e autore della vita».
CONGIURA DEL SILENZIO - Divorzio e aborto, che per il pontefice comportano «tanta sofferenza nella vita delle persone, delle famiglie e della società», oggi nel mondo sono circondati da «una congiura del silenzio ideologica. In un contesto culturale segnato da un crescente individualismo, dall’edonismo e da mancanza di solidarietà e di adeguato sostegno sociale, la libertà umana, di fronte alle difficoltà della vita, è portata nella sua fragilità a decisioni in contrasto con l’indissolubilità del patto coniugale o con il rispetto dovuto alla vita umana appena concepita e ancora custodita nel seno materno», ha affermato Joseph Ratzinger. «Divorzio e aborto sono scelte di natura certo differente, talvolta maturate in circostanze difficili e drammatiche, che comportano spesso traumi e sono fonte di profonde sofferenze in chi le compie», ma, nei confronti di chi se ne macchia, dice il Papa, la Chiesa deve «accostarsi con amore e delicatezza, con premura e attenzione materna. Gli uomini e le donne dei nostri giorni si trovano talvolta spogliati e feriti, ai margini delle strade che percorriamo, spesso senza che nessuno ascolti il loro grido di aiuto e si accosti alla loro pena, per alleviarla e curarla. Nel dibattito, spesso puramente ideologico, si crea nei loro confronti una specie di congiura del silenzio».
mercoledì 2 aprile 2008
"El islam legitima el terror" afirma Magdi Allam
autore: Elisabetta Piqué (La Naciòn, 31 marzo 2008)
Magdi Cristiano Allam, el periodista musulmán que saltó a la fama mundial después de haber sido bautizado por el Papa durante la última vigilia pascual, llega con tres autos negros blindados y con los vidrios polarizados.
La cita para la entrevista con La Nacion es en la Sede de la Prensa Extranjera, en el corazón de Roma. Tres guardaespaldas lo acompañan hasta una habitación del primer piso mirando hacia todos lados, atentos a cada movimiento. No lo dejan solo ni un minuto, incluso durante la entrevista.
No es extraño. Magdi Allam, nacido en Egipto hace 55 años, escritor, columnista y subdirector del diario Corriere della Sera, vive custodiado desde hace cinco años, tras haber recibido varias amenazas de muerte por sus críticas al extremismo islámico y por su acérrima defensa de Israel.
Tras haber sido bautizado por el mismo Papa en una ceremonia solemne en la basílica de San Pedro televisada a todo el mundo, hace una semana, su vida corre aún más peligro.
Fue definido "un apóstata que debe irse al infierno", un "enemigo del islam".
Allam, un hombre menudo, de anteojos, mirada dulce, piel color aceituna, en la entrevista explicó que decidió convertirse porque llegó a la conclusión de que "el islam es una religión negativa que legitimiza la violencia y el terrorismo".
"Considero que lo que hice, y no hubo ninguna planificación, fue justo, fue un bien, y creo que el Papa fue extremadamente sabio en haber hecho prevalecer las razones de la fe sobre las consideraciones diplomáticas y políticas, porque éste es su deber, y que también fue valiente", sostuvo.
-¿Por qué se convirtió al catolicismo?
-Fue un camino gradual y lento. Desde niño conocí el mundo católico porque fui a escuelas italianas católicas en El Cairo -primero en un jardín de monjas, después en un colegio de sacerdotes salesianos, donde era pupilo-, y esto me permitió conocer desde el interior y en modo correcto la realidad de la religión católica. Pero hubo otros dos factores que incidieron en mi conversión: el primero fue el hecho de haber sido amenazado a partir de 2003. Esto me obligó a reflexionar no sólo sobre la realidad del extremismo y del terrorismo islámico, sino también sobre el islam como religión, a partir del momento en que estos extremistas y terroristas islámicos hacen lo que hacen en nombre del islam. Me vi obligado a analizar el Corán y la obra y el pensamiento de Mahoma y descubrí que hay profundas ambigüedades que permiten legitimizar la violencia y el terrorismo.
-¿El segundo factor?
-El segundo factor fue haber conocido a varios católicos con los que me encontré en perfecta sintonía, ya que compartíamos los valores. Por supuesto la persona que más influyó en la conversión fue este papa, Benedicto XVI, a quien nunca había visto personalmente antes del bautismo, en la vigilia de Pascua.
-¿Esa fue la primera vez que estuvo con él?
-Sí, la primera y única vez.
-Según lo que escribió en el Corriere della Sera, para usted fue determinante el famoso discurso del Papa en la Universidad de Ratisbona, Alemania...
-Como periodista, yo seguí toda la actividad de Benedicto XVI y quedé totalmente fascinado por su pensamiento. Compartí plenamente su concepción de indisolubilidad entre fe y razón. Siempre me fascinó este papa porque no sólo es un gran hombre de fe, sino también un gran hombre de razón. Creo que muchos temen al Papa no por su fe, sino por su razón, por su capacidad de desafiarlos en el terreno de la razón.
-Ya viviendo amenazado de muerte y con escolta policial desde 2003 y sabiendo que iba a crear gran impacto mediático, ¿por qué pidió ser bautizado por el Papa?
-Yo no pedí ser bautizado por el Papa. Yo hace un año hablé confidencialmente con monseñor Rino Fisichella, rector de la Universidad Lateranense, y con él comencé un camino espiritual de iniciación a los sacramentos del cristianismo. En el curso de este camino surgió la posibilidad de que el bautismo fuera realizado por el Papa. Dicho esto, estoy realmente azorado y dolido, porque hay católicos que reaccionaron diciendo "¿por qué no se hizo bautizar en una pequeña parroquia por un sacerdote cualquiera?". Lo que leo entre líneas es una crítica al bautismo de Magdi Allam por cómo fue hecho, como si fuera una vergüenza, porque habría podido hacerse de modo discreto y reservado. Y la actitud del Papa es considerada una provocación. Lo que yo digo es que estoy muy orgulloso de haberme convertido, de que esto se haya hecho público y de que yo pueda afirmarlo de viva voz. Y considero que haber recibido el bautismo del Papa es el don más grande que la vida pudo darme y que fue un testimonio muy útil para muchos musulmanes que conozco que se convirtieron aquí en Italia, pero que viven su nueva fe en el secreto porque tienen miedo. Considero que lo que hice, y no hubo ninguna planificación, fue justo, fue un bien, y creo que el Papa fue extremadamente sabio en haber hecho prevalecer las razones de la fe sobre las consideraciones diplomáticas y políticas, porque éste es su deber, y que también fue valiente.
-En una declaración, sin embargo, el Vaticano pareció distanciarse...
-En esa declaración no hay ninguna toma de distancia, sino que dice que Magdi Allam es libre de expresar sus propias valoraciones, pero sus opiniones no representan las opiniones del Papa, y esto es totalmente cierto, faltaría más. Pero nunca dijo que "nosotros condenamos lo que Magdi Allam dice". La verdad es que lo que hay ahora es una operación para desacreditarme a mí y para atacar al Papa.
-¿Por qué usted cree que no existe un islam moderado?
-Hay que distinguir al islam como religión y a los musulmanes como personas. Si yo decidí convertirme, es totalmente obvio que lo hice porque maduré una valoración negativa del islam. Si yo pensara que el islam es una religión verdadera y buena, no me habría convertido, habría seguido siendo un musulmán. Pero nosotros vivimos en una Europa que está enferma de relativismo y que está sometida a lo políticamente correcto. Entonces hay que decir que todas las religiones son iguales, prescindiendo de sus contenidos, y no hay que decir nada que pueda hurtar la susceptibilidad de los demás. Pero yo rechazo esto porque creo que el ejercicio de la libertad de expresión no puede ser limitado. Y digo lo que pienso.
martedì 1 aprile 2008
"Con i Castro Cuba non sarà mai libera"
Intervista ad Armando Valladares di Stefano Magni Pubblicata sul quotidiano l'Occidentale
C’è uno strano ottimismo sul futuro di Cuba. Sembra che con l’arrivo al potere di Raul Castro si aprano possibilità di riforme e di apertura nella più longeva dittatura comunista dell’emisfero occidentale. Il dissidente Armando Valladares non la pensa così. “Raul Castro vuole mantenere lo status quo. E non gode di molte simpatie presso cupola che detiene il potere a L’Avana. La sua esperienza durerà finché vive Fidel Castro, ma, morto il lìder maximo, la prima vittima sarà proprio suo fratello”.
Valladares conosce molto bene le dinamiche totalitarie del regime di Cuba, perché le ha vissute sulla sua pelle. Nel 1959, mentre il mondo intero considerava Fidel Castro un sincero rivoluzionario democratico, l’impiegato delle poste Valladares veniva accusato per la sua fede cattolica e per il suo rifiuto tassativo di aderire alla dottrina marxista del nuovo potere. Fu segnalato alla polizia politica per un semplice gesto di dissenso: l’essersi rifiutato di applicare alla sua scrivania una targhetta con lo slogan propagandistico “Se Fidel Castro è comunista, inseritemi nella lista perché la penso come lui”. Considerato elemento recalcitrante, iniziò il suo inferno: ventidue anni nelle carceri cubane dopo un processo sommario. Mentre il mondo inneggiava alla figura rivoluzionaria di Che Guevara, eletto a nuovo idolo dalle masse progressiste, Valladares assisteva alle continue persecuzioni ed esecuzioni capitali nella prigione diretta dal “Che”, l’antico carcere di La Cabana, trasformato in un centro di detenzione e smistamento dei prigionieri politici. Mentre il mondo progressista salutava con gioia la vittoria militare dei castristi contro “i Cubani di Miami” nella Baia dei Porci, Valladares si trovava nel carcere “modello” di Isla de Pinos, seduto su tonnellate di esplosivo: in caso di vittoria degli esuli anti-castristi, gli aguzzini del regime avevano l’ordine di far saltare in aria il carcere per ammazzare tutti i prigionieri.
Mentre i progressisti, in Europa come a Hollywood, sognavano il paradiso cubano, Valladares viveva un inferno in terra, fatto di lunghi periodi in cella di rigore e isolamento, percosse, torture, lavori forzati. La sua pena divenne sempre più dura man mano che rifiutava il programma di rieducazione “offerto” dal regime. La sua fede e la convinzione di essere dalla parte del giusto, gli permisero di vincere la sua battaglia di resistenza individuale. Il suo libro di memorie dal “fondo delle carceri cubane”, intitolato Contro ogni speranza (ora edito per la seconda volta in Italia dalla casa editrice Spirali, dopo una prima edizione di SugarCo del 1987), aprì gli occhi dell’opinione pubblica mondiale sui crimini del castrismo. Ronald Reagan fu tra i suoi lettori e lo nominò ambasciatore per gli Stati Uniti presso la Commissione per i Diritti Umani dell’Onu, un ruolo che gli permise di combattere la sua lotta in difesa dei perseguitati politici cubani.
La prima cosa che Valladares ci mostra, in occasione della presentazione di Contro ogni speranza, è una vecchia foto. Si riconosce distintamente Raul Castro nell’atto di uccidere un prigioniero politico con un colpo di pistola alla nuca.
Raul Castro, appena arrivato al potere promette riforme e concede ai cubani di tenere anche un computer e una televisione. Ci dobbiamo attendere cambiamenti o è solo propaganda?
Non è cambiato nulla. Ogni giorno che passa, a Cuba vanno sempre meno turisti. Soprattutto a causa delle nuove leggi statunitensi che restringono ulteriormente la possibilità di recarsi sull’isola, complicando la procedura per ottenere un visto. Ora un cittadino americano può visitare Cuba solo una volta ogni tre anni e il denaro che si può portare dietro è limitato. Ma il regime ha bisogno di valuta straniera, di dollari. Questi elettrodomestici che si vendono adesso si vendono solo in dollari. E’ incredibile come il mondo intero dia così tanta importanza a un fatto così banale. Sembra quasi che il regime cubano abbia conquistato la Luna, ma la realtà è che dopo quasi cinquant’anni di dittatura i cubani potranno comprare una televisione in bianco e nero. Un operaio deve lavorare almeno quattro anni prima di potersi permettere un televisore. Oppure possono comprarsi un computer, ma senza Internet, perché per un allacciamento occorre un permesso speciale. E poi, siamo seri: che gran bella conquista poter comprare un forno a microonde all’alba del 2008! Quanto alla libertà politica, non c’è alcun cambiamento. Quando tutti pensavano che Carlos Lahe, uno aperto alle riforme, potesse diventare la figura più importante, l’hanno messo da parte. Raul, invece, ha scelto come suo vice uno dei pochi stalinisti puri rimasti nel mondo: Machado Ventura. E questo è già un messaggio più che esplicito. Due settimane fa, il ministro degli Esteri Felipe Perez Roque ha firmato due trattati internazionali per la tutela dei diritti umani (che includono anche il diritto di voto, di emigrazione e di assemblea, ndr), ma una settimana dopo la firma di questi accordi un gruppo di cittadini cubani è stato malmenato solo perché sventolava copie della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. C’è più repressione adesso che tre mesi fa.
Quando Lei fu arrestato, Castro non si definiva neppure marxista, ma stava portando a termine la sovietizzazione dell’isola. Crede che vi sia un’operazione simile di dissimulazione anche in questi mesi?
No, non credo che vi sia disinformazione in questi giorni. Perché il messaggio di Raul Castro e di Machado Ventura è chiarissimo ed esplicito: se non accettate il regime, noi vi schiacciamo. Due ragazzi che stavano solo chiedendo perché non poter uscire da Cuba, sono stati arrestati. Solo perché avevano fatto una domanda. Non erano dissidenti, non volevano compiere atti ‘sovversivi’, si sono dichiarati dei socialisti convinti quando sono stati fatti comparire in televisione.
Perché la stampa occidentale è così ottimista per Cuba?
E’ un atteggiamento interessato. Milioni di persone vogliono mantenere intatto questo ultimo baluardo del comunismo nel mondo, a costo di giustificare o nascondere quasi cinquant’anni di crimini. In realtà non esiste alcuna prova che dimostri che sia in corso un’opera di riforma. L’appoggio al castrismo, per buona parte dell’opinione pubblica, è un modo per veicolare l’odio nei confronti degli Stati Uniti. Castro è stato un nemico giurato degli Usa, vicino alle loro coste. Ha combattuto contro Washington, sia realmente che facendo molto teatro. Si diceva che vi sarebbe stato un cambiamento anche dieci anni fa, quando il Papa Giovanni Paolo II aveva dichiarato che ‘Cuba si aprirà al mondo e il mondo si aprirà a Cuba’. La gente se lo aspettava veramente, ma sono passati dieci anni: il mondo si è aperto a Cuba, ma Cuba è ancora chiusa.
Proprio a proposito della visita del Papa, Lei ha contestato, le dichiarazioni del cardinal Bertone sul regime. Perché i cattolici hanno questo atteggiamento, secondo Lei?
La Chiesa che ignora e nasconde i suoi martiri non è una vera Chiesa. E la Chiesa di Cuba è quella del silenzio e della complicità. Io ricordo quando Monsignor Zacchi visitò Cuba e dichiarò che Castro era un uomo “profondamente cristiano”. Proprio in quel momento, i cristiani venivano fucilati nel carcere di La Cabana e gridavano ‘Viva Cristo Re, abbasso il comunismo!’ prima di essere uccisi. Se Castro era un uomo dai valori profondamente cristiani, allora che cosa erano quei martiri che si facevano uccidere pur di non rinunciare alla loro fede? Castro ha detto più volte che si può essere cattolici e militanti comunisti, ma sarebbe come voler avere una donna che è vergine e prostituta allo stesso tempo. Un cattolico non può essere comunista.
Sono già passati cinquanta anni di comunismo e di scristianizzazione. Il marxismo è la filosofia di vita ufficiale per ogni cittadino. Ma i cubani sono dei marxisti convinti, o hanno conservato principi cristiani?
Per Dio nulla è impossibile. In questi anni le chiese protestanti sono state molto attive e hanno conquistato molti nuovi fedeli. E moltissimi sono tornati a praticare la religione cattolica. Non si è persa la spiritualità cristiana. Quanto al marxismo, non direi proprio che è diventata una filosofia popolare a Cuba. Basti vedere che quando hanno permesso ai cittadini di uscire dal paese tramite l’ambasciata del Perù nel 1980, sono uscite 125.000 persone, la metà delle quali era nata a Cuba dopo la rivoluzione nel 1959. Mezzo milione di persone ha fatto richiesta all’Ufficio degli Interessi Americani per lasciare l’isola. Siccome l’accordo è per 20.000 persone all’anno, ci vorranno più di vent’anni per accontentare tutti. Cuba è un paese di 11 milioni di abitanti e più di 2 milioni vivono all’estero. Sette giocatori della squadra di calcio cubana hanno abbandonato il paese. Queste sono solo alcune delle prove che dimostrano come il popolo non accetti il marxismo.
Nel suo libro cita esempi di cittadini fuggiti in Messico e rimandati a Cuba. Come vengono accolti i profughi cubani negli altri paesi? Quanto è difficile ottenere lo status di rifugiato politico?
In genere c’è un rifiuto generale dei profughi cubani, non solo in Messico, ma anche nelle Bahamas (con cui pure c’è qualche accordo). La maggioranza dei paesi vicini rifiuta l’emigrazione, con l’unica eccezione degli Stati Uniti. Ma, anche in questo caso, con regole molto severe: sei salvo e ottieni l’asilo politico, solo quando sei ‘all’asciutto’, quando sei riuscito a sbarcare sul suolo americano. Pochi metri di nuoto o di navigazione possono fare la differenza. Sembra un gioco sadico.
In Contro ogni speranza Lei descrive condizioni delle carceri cubane simili a un inferno dantesco. Oggi, a venticinque anni dalla sua uscita dall’isola, sono ancora così le carceri di Cuba?
La cosa più terribile è che la gente continua ad andare in prigione solo per aver espresso la propria opinione. L’ultima famosa ‘ola represiva’ del 2003, ha portato in carcere giornalisti che non facevano altro che descrivere la realtà di Cuba. Amnesty International denuncia che a Cuba non ci sono processi equi e maltrattamenti di certi prigionieri politici nelle carceri, come il medico Oscar Elia Biscet, in cella di rigore e nel più completo isolamento da quando è stato arrestato. Certo, ci si può credere o si può anche non voler credere. Ai tempi di Stalin, il ministro francese André Malraux e il vicepresidente americano Henry Wallace, si sono recati in visita in Unione Sovietica e, tornando a casa, entrambi hanno dichiarato che tutto quel che si diceva sui crimini di Stalin era solo frutto di illazioni, che Stalin era solo un vecchietto bonario che stava cercando di modernizzare il suo paese. In quegli anni, quel “vecchietto” aveva già sterminato più di 20 milioni di cittadini sovietici. Però faceva vedere agli ospiti solo quello che voleva lui, ricostruendo e riverniciando le facciate delle case nei villaggi dove passavano, creando paesaggi idilliaci ad uso e consumo degli stranieri. Oggi nessuno mette in dubbio i crimini di Stalin, ma si è dovuto attendere che fosse un altro comunista, Nikita Chrushev, a denunciarli pubblicamente. Per Cuba, io sono convinto che il mondo potrà conoscere i crimini del castrismo e indignarsi solo quando la dittatura cadrà. E in quel momento molta gente si vergognerà.
Quando pubblicò il suo libro per la prima volta, la gente le credette?
Nessuno credette a quel che avevo scritto. Mi dicevano che era solo propaganda, che era stato scritto dalla Cia per screditare Castro. Quando sono stato nominato ambasciatore per Diritti Umani all’Onu, per volontà del presidente Ronald Reagan, ho mandato sei ispettori a Cuba a investigare sulla realtà che avevo descritto. Tutto venne documentato e provato. Chiunque voglia andare a verificare se quello che dico è vero, può andare alla sede della Commissione dei Diritti Umani a Ginevra. E’ stato solo con la pubblicazione delle mie memorie che la gente ha iniziato a realizzare che a Cuba c’era repressione, che c’erano desaparecidos e torture nelle carceri, che i prigionieri politici venivano condannati senza processo.
Cosa pensa del fatto che Cuba è un membro del Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu?
E’ uno scherzo. Sarebbe come affidare a Hitler la sicurezza della comunità ebraica. O affidare un asilo infantile a Erode.
C’è uno strano ottimismo sul futuro di Cuba. Sembra che con l’arrivo al potere di Raul Castro si aprano possibilità di riforme e di apertura nella più longeva dittatura comunista dell’emisfero occidentale. Il dissidente Armando Valladares non la pensa così. “Raul Castro vuole mantenere lo status quo. E non gode di molte simpatie presso cupola che detiene il potere a L’Avana. La sua esperienza durerà finché vive Fidel Castro, ma, morto il lìder maximo, la prima vittima sarà proprio suo fratello”.
Valladares conosce molto bene le dinamiche totalitarie del regime di Cuba, perché le ha vissute sulla sua pelle. Nel 1959, mentre il mondo intero considerava Fidel Castro un sincero rivoluzionario democratico, l’impiegato delle poste Valladares veniva accusato per la sua fede cattolica e per il suo rifiuto tassativo di aderire alla dottrina marxista del nuovo potere. Fu segnalato alla polizia politica per un semplice gesto di dissenso: l’essersi rifiutato di applicare alla sua scrivania una targhetta con lo slogan propagandistico “Se Fidel Castro è comunista, inseritemi nella lista perché la penso come lui”. Considerato elemento recalcitrante, iniziò il suo inferno: ventidue anni nelle carceri cubane dopo un processo sommario. Mentre il mondo inneggiava alla figura rivoluzionaria di Che Guevara, eletto a nuovo idolo dalle masse progressiste, Valladares assisteva alle continue persecuzioni ed esecuzioni capitali nella prigione diretta dal “Che”, l’antico carcere di La Cabana, trasformato in un centro di detenzione e smistamento dei prigionieri politici. Mentre il mondo progressista salutava con gioia la vittoria militare dei castristi contro “i Cubani di Miami” nella Baia dei Porci, Valladares si trovava nel carcere “modello” di Isla de Pinos, seduto su tonnellate di esplosivo: in caso di vittoria degli esuli anti-castristi, gli aguzzini del regime avevano l’ordine di far saltare in aria il carcere per ammazzare tutti i prigionieri.
Mentre i progressisti, in Europa come a Hollywood, sognavano il paradiso cubano, Valladares viveva un inferno in terra, fatto di lunghi periodi in cella di rigore e isolamento, percosse, torture, lavori forzati. La sua pena divenne sempre più dura man mano che rifiutava il programma di rieducazione “offerto” dal regime. La sua fede e la convinzione di essere dalla parte del giusto, gli permisero di vincere la sua battaglia di resistenza individuale. Il suo libro di memorie dal “fondo delle carceri cubane”, intitolato Contro ogni speranza (ora edito per la seconda volta in Italia dalla casa editrice Spirali, dopo una prima edizione di SugarCo del 1987), aprì gli occhi dell’opinione pubblica mondiale sui crimini del castrismo. Ronald Reagan fu tra i suoi lettori e lo nominò ambasciatore per gli Stati Uniti presso la Commissione per i Diritti Umani dell’Onu, un ruolo che gli permise di combattere la sua lotta in difesa dei perseguitati politici cubani.
La prima cosa che Valladares ci mostra, in occasione della presentazione di Contro ogni speranza, è una vecchia foto. Si riconosce distintamente Raul Castro nell’atto di uccidere un prigioniero politico con un colpo di pistola alla nuca.
Raul Castro, appena arrivato al potere promette riforme e concede ai cubani di tenere anche un computer e una televisione. Ci dobbiamo attendere cambiamenti o è solo propaganda?
Non è cambiato nulla. Ogni giorno che passa, a Cuba vanno sempre meno turisti. Soprattutto a causa delle nuove leggi statunitensi che restringono ulteriormente la possibilità di recarsi sull’isola, complicando la procedura per ottenere un visto. Ora un cittadino americano può visitare Cuba solo una volta ogni tre anni e il denaro che si può portare dietro è limitato. Ma il regime ha bisogno di valuta straniera, di dollari. Questi elettrodomestici che si vendono adesso si vendono solo in dollari. E’ incredibile come il mondo intero dia così tanta importanza a un fatto così banale. Sembra quasi che il regime cubano abbia conquistato la Luna, ma la realtà è che dopo quasi cinquant’anni di dittatura i cubani potranno comprare una televisione in bianco e nero. Un operaio deve lavorare almeno quattro anni prima di potersi permettere un televisore. Oppure possono comprarsi un computer, ma senza Internet, perché per un allacciamento occorre un permesso speciale. E poi, siamo seri: che gran bella conquista poter comprare un forno a microonde all’alba del 2008! Quanto alla libertà politica, non c’è alcun cambiamento. Quando tutti pensavano che Carlos Lahe, uno aperto alle riforme, potesse diventare la figura più importante, l’hanno messo da parte. Raul, invece, ha scelto come suo vice uno dei pochi stalinisti puri rimasti nel mondo: Machado Ventura. E questo è già un messaggio più che esplicito. Due settimane fa, il ministro degli Esteri Felipe Perez Roque ha firmato due trattati internazionali per la tutela dei diritti umani (che includono anche il diritto di voto, di emigrazione e di assemblea, ndr), ma una settimana dopo la firma di questi accordi un gruppo di cittadini cubani è stato malmenato solo perché sventolava copie della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. C’è più repressione adesso che tre mesi fa.
Quando Lei fu arrestato, Castro non si definiva neppure marxista, ma stava portando a termine la sovietizzazione dell’isola. Crede che vi sia un’operazione simile di dissimulazione anche in questi mesi?
No, non credo che vi sia disinformazione in questi giorni. Perché il messaggio di Raul Castro e di Machado Ventura è chiarissimo ed esplicito: se non accettate il regime, noi vi schiacciamo. Due ragazzi che stavano solo chiedendo perché non poter uscire da Cuba, sono stati arrestati. Solo perché avevano fatto una domanda. Non erano dissidenti, non volevano compiere atti ‘sovversivi’, si sono dichiarati dei socialisti convinti quando sono stati fatti comparire in televisione.
Perché la stampa occidentale è così ottimista per Cuba?
E’ un atteggiamento interessato. Milioni di persone vogliono mantenere intatto questo ultimo baluardo del comunismo nel mondo, a costo di giustificare o nascondere quasi cinquant’anni di crimini. In realtà non esiste alcuna prova che dimostri che sia in corso un’opera di riforma. L’appoggio al castrismo, per buona parte dell’opinione pubblica, è un modo per veicolare l’odio nei confronti degli Stati Uniti. Castro è stato un nemico giurato degli Usa, vicino alle loro coste. Ha combattuto contro Washington, sia realmente che facendo molto teatro. Si diceva che vi sarebbe stato un cambiamento anche dieci anni fa, quando il Papa Giovanni Paolo II aveva dichiarato che ‘Cuba si aprirà al mondo e il mondo si aprirà a Cuba’. La gente se lo aspettava veramente, ma sono passati dieci anni: il mondo si è aperto a Cuba, ma Cuba è ancora chiusa.
Proprio a proposito della visita del Papa, Lei ha contestato, le dichiarazioni del cardinal Bertone sul regime. Perché i cattolici hanno questo atteggiamento, secondo Lei?
La Chiesa che ignora e nasconde i suoi martiri non è una vera Chiesa. E la Chiesa di Cuba è quella del silenzio e della complicità. Io ricordo quando Monsignor Zacchi visitò Cuba e dichiarò che Castro era un uomo “profondamente cristiano”. Proprio in quel momento, i cristiani venivano fucilati nel carcere di La Cabana e gridavano ‘Viva Cristo Re, abbasso il comunismo!’ prima di essere uccisi. Se Castro era un uomo dai valori profondamente cristiani, allora che cosa erano quei martiri che si facevano uccidere pur di non rinunciare alla loro fede? Castro ha detto più volte che si può essere cattolici e militanti comunisti, ma sarebbe come voler avere una donna che è vergine e prostituta allo stesso tempo. Un cattolico non può essere comunista.
Sono già passati cinquanta anni di comunismo e di scristianizzazione. Il marxismo è la filosofia di vita ufficiale per ogni cittadino. Ma i cubani sono dei marxisti convinti, o hanno conservato principi cristiani?
Per Dio nulla è impossibile. In questi anni le chiese protestanti sono state molto attive e hanno conquistato molti nuovi fedeli. E moltissimi sono tornati a praticare la religione cattolica. Non si è persa la spiritualità cristiana. Quanto al marxismo, non direi proprio che è diventata una filosofia popolare a Cuba. Basti vedere che quando hanno permesso ai cittadini di uscire dal paese tramite l’ambasciata del Perù nel 1980, sono uscite 125.000 persone, la metà delle quali era nata a Cuba dopo la rivoluzione nel 1959. Mezzo milione di persone ha fatto richiesta all’Ufficio degli Interessi Americani per lasciare l’isola. Siccome l’accordo è per 20.000 persone all’anno, ci vorranno più di vent’anni per accontentare tutti. Cuba è un paese di 11 milioni di abitanti e più di 2 milioni vivono all’estero. Sette giocatori della squadra di calcio cubana hanno abbandonato il paese. Queste sono solo alcune delle prove che dimostrano come il popolo non accetti il marxismo.
Nel suo libro cita esempi di cittadini fuggiti in Messico e rimandati a Cuba. Come vengono accolti i profughi cubani negli altri paesi? Quanto è difficile ottenere lo status di rifugiato politico?
In genere c’è un rifiuto generale dei profughi cubani, non solo in Messico, ma anche nelle Bahamas (con cui pure c’è qualche accordo). La maggioranza dei paesi vicini rifiuta l’emigrazione, con l’unica eccezione degli Stati Uniti. Ma, anche in questo caso, con regole molto severe: sei salvo e ottieni l’asilo politico, solo quando sei ‘all’asciutto’, quando sei riuscito a sbarcare sul suolo americano. Pochi metri di nuoto o di navigazione possono fare la differenza. Sembra un gioco sadico.
In Contro ogni speranza Lei descrive condizioni delle carceri cubane simili a un inferno dantesco. Oggi, a venticinque anni dalla sua uscita dall’isola, sono ancora così le carceri di Cuba?
La cosa più terribile è che la gente continua ad andare in prigione solo per aver espresso la propria opinione. L’ultima famosa ‘ola represiva’ del 2003, ha portato in carcere giornalisti che non facevano altro che descrivere la realtà di Cuba. Amnesty International denuncia che a Cuba non ci sono processi equi e maltrattamenti di certi prigionieri politici nelle carceri, come il medico Oscar Elia Biscet, in cella di rigore e nel più completo isolamento da quando è stato arrestato. Certo, ci si può credere o si può anche non voler credere. Ai tempi di Stalin, il ministro francese André Malraux e il vicepresidente americano Henry Wallace, si sono recati in visita in Unione Sovietica e, tornando a casa, entrambi hanno dichiarato che tutto quel che si diceva sui crimini di Stalin era solo frutto di illazioni, che Stalin era solo un vecchietto bonario che stava cercando di modernizzare il suo paese. In quegli anni, quel “vecchietto” aveva già sterminato più di 20 milioni di cittadini sovietici. Però faceva vedere agli ospiti solo quello che voleva lui, ricostruendo e riverniciando le facciate delle case nei villaggi dove passavano, creando paesaggi idilliaci ad uso e consumo degli stranieri. Oggi nessuno mette in dubbio i crimini di Stalin, ma si è dovuto attendere che fosse un altro comunista, Nikita Chrushev, a denunciarli pubblicamente. Per Cuba, io sono convinto che il mondo potrà conoscere i crimini del castrismo e indignarsi solo quando la dittatura cadrà. E in quel momento molta gente si vergognerà.
Quando pubblicò il suo libro per la prima volta, la gente le credette?
Nessuno credette a quel che avevo scritto. Mi dicevano che era solo propaganda, che era stato scritto dalla Cia per screditare Castro. Quando sono stato nominato ambasciatore per Diritti Umani all’Onu, per volontà del presidente Ronald Reagan, ho mandato sei ispettori a Cuba a investigare sulla realtà che avevo descritto. Tutto venne documentato e provato. Chiunque voglia andare a verificare se quello che dico è vero, può andare alla sede della Commissione dei Diritti Umani a Ginevra. E’ stato solo con la pubblicazione delle mie memorie che la gente ha iniziato a realizzare che a Cuba c’era repressione, che c’erano desaparecidos e torture nelle carceri, che i prigionieri politici venivano condannati senza processo.
Cosa pensa del fatto che Cuba è un membro del Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu?
E’ uno scherzo. Sarebbe come affidare a Hitler la sicurezza della comunità ebraica. O affidare un asilo infantile a Erode.
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