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giovedì 8 febbraio 2007

Ragioni laiche per dire “No Pacs”.




di Giacomo Samek Lodovici

in «Il Timone», n. 60 (febbraio 2007), pp. 34-36

Non bisogna essere credenti per rifiutare i Pacs. Basta la ragione. Il riconoscimento pubblico delle unioni di fatto è inutile e dannoso. Specialmente per i bambini. Lo dicono studi specialistici, che non vengono pubblicizzati.


Molti credono che opporsi al riconoscimento giuridico delle coppie di fatto sia dovuto a motivi legati alla fede cattolica. È un errore. Ci sono ottime ragioni, dettate dal buon senso e dall’esperienza, valide anche per chi non crede, per giudicare negativamente i Pacs. Vediamone alcune.

Un danno enorme per i bambini
Perché lo Stato deve privilegiare il matrimonio rispetto ad altri tipi di unione e di convivenza? Perché deve incentivare le forme di vita che concorrono al bene comune e che tutelano i deboli e gli indifesi. Qui, il bene comune è in primo luogo la procreazione, la cura e l’educazione dei figli, che assicurano la sopravvivenza della società. E la tutela di deboli e indifesi fa pensare innanzitutto ai bambini.
Pochi considerano il vero bene di questi ultimi. È chiaro che il contesto più propizio per la loro nascita, cura ed educazione è una forma di relazione caratterizzata dall’amore, dalla stabilità e dalla coesione. Ma ciò è l’esatto contrario delle convivenze, connotate (con rare eccezioni) da provvisorietà e breve durata, perché i conviventi non si impegnano con alcun vincolo a rimanere insieme. I dati parlano chiaro: gli uomini che convivono sono 4 volte più infedeli dei mariti, e le donne conviventi tradiscono 8 volte di più delle mogli (cfr. Gallagher - Waite, 2000).
Non solo. Un gruppo di ricercatori della Rutgers University (USA) ha dimostrato che su 4 bambini nati da coppie di fatto, 3 soffrono per la rottura dell’unione dei loro genitori prima dei 16 anni di età, e rimangono a vivere con un solo genitore. S. Brown, della Bowling Green State University (Usa), ha documentato che i figli delle coppie di fatto subiscono disordini psicologici (asocialità, depressione, difficoltà di concentrazione) più frequentemente rispetto a quelli degli sposati. In più, il tasso di violenza domestica è molto più alto tra le coppie di fatto che tra quelle coniugate e la depressione è 3 volte maggiore tra i conviventi che tra gli sposati.
Sono dati impressionanti, purtroppo sconosciuti ai più, ma significativi per motivare un giudizio negativo sui Pacs.

I bambini e le coppie gay
Quanto alle coppie omosessuali, è ovvio che esse non possono contribuire mediante la procreazione alla continuazione della società. Si obbietta che potrebbero farlo adottando dei bambini. Ma dare loro bambini in adozione significa, quanto meno, privarli della figura materna/paterna, che non può essere surrogata da chi è uomo/donna.
I dati a nostra disposizione mostrano che i bambini affidati a queste coppie hanno alta probabilità di soffrire di gravi disturbi psicologici, di avere bassa autostima, maggiore propensione alla tossicodipendenza e ad autolesionarsi (cfr. Deevy, 1989, p. 34), per almeno i seguenti 5 motivi.
a) L’assenza della figura materna/paterna. È vero che ci sono casi in cui i bambini trovano le figure di riferimento femminile/maschile fuori dalla coppia genitoriale; ma ciò non si verifica sempre e non intacca l’inaccettabilità della privazione iniziale. Esistono situazioni speciali (per es. in tempo di guerra) in cui alcuni bambini vengono allevati da due donne; ma una situazione eccezionale richiede soluzioni eccezionali che non possono diventare norma, né essere considerate un bene.
b) La brevità dei legami omosessuali, che si infrangono molto più frequentemente di quelli delle coppie coniugate, con o senza figli. Due ricercatori gay non sospettabili di parzialità, D. McWirther e A. Mattison, hanno esaminato 156 coppie omosessuali e ne hanno ricavato risultati scioccanti. Solo 7 di queste avevano avuto una relazione esclusiva, ma nessuna era durata più di 5 anni. Le relazioni omosessuali durano in media un anno e mezzo e i maschi gay hanno mediamente 8 partner in un anno fuori dal rapporto principale (Xiridou, 2003). E un’indagine su 150 uomini omosessuali di età tra i 30 e i 40 anni ha mostrato che già a quell’età il 65% aveva avuto più di 100 (cento) partner sessuali (cfr. Goode - Troiden, 1980). Ci sono rare coppie omosessuali che coabitano per più anni, ma tra loro non c’è quasi mai esclusività nei rapporti.
c) Gli omosessuali hanno alta probabilità di avere salute peggiore e problemi psicologici (cfr. Rothblum, 1990, p. 76; Welch, 2000, pp. 256-263), che si ripercuotono sui bambini. In Olanda, dove il clima culturale è molto tollerante, uno studio su 7.076 soggetti ha mostrato che i disturbi psicologici degli omosessuali sono molto frequenti (cfr. Sandfort, 2001, pp. 85-91). Forse è anche per questo motivo che in quell’ambiente la percentuale di suicidi è superiore alla media e il tasso di violenza è assai alto (Cameron, 1996, pp. 383-404).
d) I bambini che vengono adottati hanno alle spalle già una storia di sofferenze e/o di violenza: così, alla differenza tra i genitori naturali e quelli adottivi «che già di per sé costituisce una difficoltà – si viene ad aggiungere il fatto che la coppia dei secondi non è analoga alla coppia dei primi» (Lacroix, p. 56).
e) Ancora, «è insito nel bambino un bisogno di divisione dei ruoli, di sapere “chi fa che cosa” e “da chi mi posso aspettare questo atteggiamento e da chi mi posso aspettare quell’altro”» (Lobbia - Trasforini, p. 89).
Si sa che anche un matrimonio può naufragare. Però è l’istituto giuridico che dà maggiori garanzie di durata perché, se nel matrimonio la fragilità è una forma di patologia, nelle altre unioni è la norma, visto che esse non si impegnano a restare unite, come dicono i dati sopra riportati. Se dunque il matrimonio è come una casa costruita per abitarci per tutta la vita e che può crollare, gli altri tipi di unione sono come delle case costruite per stare in piedi solo per un certo periodo, dopo il quale crollano quasi sempre.
Quel che è certo è che in generale il matrimonio tra un uomo e una donna è, in forza della sua maggiore stabilità, l’ambito più adatto per l’educazione e la crescita dei bambini e, dunque, chiunque si sposa rappresenta un esempio per le giovani generazioni, perlomeno per la volontà di dare al rapporto una dimensione di durata e stabilità: perciò è giusto che lo Stato incentivi comunque il matrimonio.

I Pacs discriminano
I sostenitori dei Pacs dicono che i conviventi sono discriminati. È falso. La vera discriminazione viene dai Pacs e colpisce i coniugi regolarmente sposati, perché questi si sono formalmente assunti degli obblighi (per es., di coabitazione, di aiuto reciproco, di educare i figli, anche adottati, di contribuire ai bisogni della famiglia, di versare gli alimenti in caso di separazione o divorzio). Riconoscendo le unioni di fatto, lo Stato si assume delle obbligazioni verso i conviventi, mentre questi non ne assumono alcuna, riconosce loro facilitazioni ed incentivi (per es. per comprare la casa, o la pensione di reversibilità, o l’accesso all’edilizia popolare, ecc.) senza esigere in cambio quei doveri che invece esige dai coniugi.
Alcune proposte di legge menzionano dei doveri dei conviventi, ma finché questi non saranno in tutto e per tutto esattamente equivalenti a quelli dei coniugi, non c’è alcun motivo di riconoscere loro i medesimi diritti dei coniugi.
Se i membri di queste forme di convivenza si trovano in stato di necessità si possono attuare, dove non esistano già, politiche di aiuto ai singoli in quanto singoli, ma non alle relazioni, senza equiparare giuridicamente i conviventi ai coniugati e purché tali aiuti restino sempre diversi da quelli concessi ai coniugi.
Inoltre, se lo Stato vorrà dare incentivi alla coppie di fatto, allora dovrà concederli anche ai membri di altre relazioni affettivo-solidaristiche, di aiuto reciproco, come quelle tra amici, tra un anziano e un parente, tra anziani o religiosi che vivono insieme, altrimenti si creerebbe una discriminazione. Perché mai privilegiare i conviventi? Forse perché le loro relazioni hanno alla base un’unione sessuale? Ma, se conta solo questa, allora bisognerebbe incentivare economicamente anche la poligamia e l’incesto.
Davvero, il riconoscimento giuridico dei Pacs susciterebbe molte discriminazioni ingiuste.

E se fanno i furbi?
Come si può controllare se la relazione sessuale dei conviventi è effettiva o dichiarata soltanto per ottenere il godimento dei diritti che deriverebbero dai Pacs? Equiparando giuridicamente il matrimonio e le altre unioni, lo Stato si espone agli abusi e alle truffe di chi vuole avere benefici e diritti senza alcun dovere. È vero, anche chi si sposa può avere questa intenzione, ma i doveri implicati dal matrimonio rendono meno allettanti tali diritti ed incentivi.
Naturalmente, quanto detto fin qui non significa che ai conviventi e agli omosessuali debbano essere negati i diritti fondamentali: essi devono poter usufruire dei diritti di tutti gli altri uomini in quanto singoli, ma non dei diritti che lo Stato riconosce alle coppie sposate per il loro contributo alla continuazione della società.
Del resto, come ha dimostrato la rivista «Sì alla vita» (novembre 2005), i diritti reclamati per i conviventi dai sostenitori dei Pacs sono già garantiti dal diritto privato (cfr. box in questo dossier a p. 39). Questo spiega perché nei comuni italiani dove sono stati istituiti i registri delle unioni di fatto, e nei paesi europei dove già esistono i Pacs, la richiesta di iscriversi è stata davvero irrisoria e interessa pochissimo ai conviventi. Ma, allora, perché presentare i Pacs come un’urgenza improrogabile? In realtà, uno dei veri obiettivi è consentire agli omosessuali di adottare bambini: se i conviventi vengono parificati ai coniugi bisognerà concedere loro, prima o poi, questa possibilità.
Ma si può ipotizzare che un altro obiettivo sia anche svuotare di significato il matrimonio, togliergli ogni attrattiva e farlo scomparire.

Un’ultima ragione
Infine, i Pacs non devono essere istituiti perché sono una forma di approvazione pubblica di comportamenti (come le convivenze more uxorio e l’omosessualità) che non debbono essere proibiti, ma che sono moralmente biasimabili, come si può dimostrare, ancora una volta, laicamente (cfr. il Timone, n. 50, pp. 36-38 e n. 55, p. 32), senza far alcun riferimento alla fede cristiana.

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