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venerdì 30 marzo 2007

Utopia di una Patria comune



L’Unione ha bisogno di completarsi e di rafforzarsi, ma servono le stesse cose di cui abbiamo più bisogno in patria: senso dello Stato; solide strutture sociali, economiche e amministrative; legalità; mercato; democrazia, ecc.. Ma, innanzitutto, nell’elenco delle sfide, che deve affrontare, c’è da preservare il valore dell’identità e il senso della responsabilità sociale. Il senso di appartenenza ad una comunità Europea è importante, senza questo collante il sistema fatica a produrre ciò di cui ha bisogno: il rispetto spontaneo delle istituzioni che fanno funzionare la vita associata; il senso della storia comune da cui viene la fiducia in un futuro di sviluppo. Oggi c’è grande bisogno di ritrovare e far ritrovare senso al nostro vivere insieme all’interno delle nostre comunità, le tante comunità che compongono questa nostra Europa, con i suoi popoli e le sue culture, ma che devono trovare in esso la loro sintesi. La coesione sociale e la condivisione di alcuni grandi valori sono beni preziosi di cui non ci possiamo privare, come la nostra identità e le radici cristiane.

L’Europa fatica a mantenere la propria identità nella sfida dei tempi e a definire la sua identità a fronte delle altre culture religiose e laiche che si impongono nel mondo moderno.L’eliminazione delle radici cristiane dal Trattato Ue, nel continente sede storica per eccellenza del Cristianesimo, appare l’esito estremo che la corrente laicista e il linguaggio politicamente corretto ci ha imposto . D’improvviso in molti luoghi d’Europa si sono ricreate le condizioni con cui duemila anni prima l’annuncio cristiano aveva dovuto fare i conti: vale a dire un potere politico radicalmente ostile, esplicitamente orientato all’ateismo, a cancellare il credo cristiano dalla propria società e disposto a procedere, in vista di tali obiettivi, alle più dure persecuzioni. Quale coraggio del futuro può nascere se la memoria e le radici sono tagliate, se non sentiamo il bisogno costante di valutare la tradizione che abbiamo alle spalle, se non impariamo dal nostro passato come possiamo evitare errori nel futuro?

Alla vigilia dei 50 anni dei Trattati di Roma Benedetto XVI, ricevendo i vescovi europei a Roma riuniti per la stessa occasione, ha parlato della necessità di “un’Europa capace di ritrovare i suoi valori, la fiducia in se stessi, l’ambizione prioritaria di servire la realizzazione e la felicità degli europei piuttosto che l’ambizione di creare un gigante economico e burocratico”. Il Papa ha invitato i governi dell’Unione a “edificare un’autentica casa comune europea non trascurando l’identità propria dei popoli di questo nostro Continente. Si tratta di un’identità storica, culturale e morale, prima ancora che geografica, economica o politica; un’identità costituita da un insieme di valori universali, che il Cristianesimo ha contribuito a forgiare, acquisendo così un ruolo non soltanto storico, ma fondativo nei confronti dell’Europa. Non si può escludere un elemento essenziale dell’identità europea qual è il Cristianesimo, in cui vasta maggioranza dei cittadini continua a identificarsi”. Per Benedetto XVI “una comunità che si costruisce senza rispettare l’autentica dignità dell’essere umano, dimenticando che ogni persona è creata a immagine di Dio, finisce per non fare il bene di nessuno”. “Non c’è l’obbligo di essere cristiani per praticare questi valori”, ricorda il Pontefice, “questi valori di matrice cristiana sono il nocciolo duro, fondatore, dell’Europa, senza questi non c’è più nulla”.

God Bless Europa, Dio benedica l’Europa. In questa frase caratteristica del corretto rapporto tra la religione e la vita pubblica americana, c’è la sostanza della democrazia oltreoceano: là, Dio c’entra con la vita pubblica della nazione. Negli Usa altri illuministi e cristiani costruirono un rapporto tra società e stato, dove la società, insieme alla religione, sono il perno della democrazia.

Abbiamo molto bisogno di Europa. Il popolo in gran parte c’è, è la classe dirigente che in parte manca e in materia fanno le "orecchie da mercante" lasciando tutto come prima. L’Europa è pacificata e riunificata, ma della patria comune per la verità è in parte ancora astrazione, se non addirittura illusione.

martedì 20 marzo 2007

TV da comizio


Vale forse la pena di riflettere un po’ a freddo sul fenomeno montante dei conduttori televisivi in preda a sindrome da comizio.
I due casi più illustri e recenti sono quelli di Pippo Baudo e Michele Santoro.

Il primo, sull’onda del successo di ascolti del suo Sanremo, si è scagliato in diretta contro “i politici”, colpevoli di mettere in discussione i suoi cachet televisivi “invece di occuparsi dei veri problemi del paese”. Era furioso e irato, Pippo, mentre concionava contro la politica e sullo sfondo si udiva il fragore di applausi di dubbia autenticità. Per non parlare dei suoi attacchi insensati al Papa per creare notizia ed essere più "conforme" ai tempi.

Peggio ha fatto Michele Santoro durante la puntata di AnnoZero dedicata al tema dei Dico. Subito dopo la polemica uscita di Mastella dalla trasmissione, Santoro è esploso. Con l’occhio fisso sulla telecamera, il dito alzato e la fronte aggrottata ha urlato che “i politici la devono finire”, che “è una vergogna”, che “questi signori della politica si devono abituare alle domande”. Fino a dire, con risibile vittimismo, “cacciatemi pure, non me ne frega niente” (in realtà venne cacciato e gliene fregò moltissimo).

Questi episodi ci sembra vadano al di là del pur riprovevole “uso privato del mezzo televisivo”. Racchiudono una carica di antipolitica (per di più fatta da due politici incalliti) che ricorda fasi brutte e ancora brucianti della storia italiana recente.

I comizi di Baudo e Santoro sembrano la versione aggiornata – con tanto di ricaduta su youtube.com – dei pronunciamenti di Borrelli e soci, dei loro proclami contro la politica infetta davanti alle piazze plaudenti. La politica era debole allora come lo è oggi, e allora venne spazzata via dalla furia purificatrice delle manette.

Baudo e Santoro fanno quello che fanno e dicono quello che dicono perché colgono la stessa debolezza dell’interlocutore e sanno di poter accendere facilmente la furia delle loro platee. Non hanno bisogno di tribunali: hanno gli studi televisivi (da cui guai a evadere); e il loro potere è altrettanto irresponsabile di quello dei magistrati di allora (e di oggi).
I paralleli storici sono sempre pieni di trappole e non vogliamo spingerci oltre. Certo la situazione politica alimenta presagi foschi e il “pool” dei conduttori andrebbe tenuto d’occhio. La talevisione è pubblica? Se lo fosse non dovrebbe far interessi di parte. Da quando sono nato non ho mai visto una Rai obiettiva e oggi non è al passo con i tempi. Con tutte queste privatizzazioni penso che sia l'ora di privatizzare anche la televisione pubblica dato che non è capace di fare gli "interessi di tutti", e aumenta il canone di anno in anno.
Perché non sono solo canzonette.

mercoledì 7 marzo 2007

I TALEBANI LO SANNO


Il centro sinistra in Italia può fare la guerra solo a patto di non dirlo. È stato il caso dei Balcani e poi, per un breve periodo, anche quello dell’Afghanistan.

Purtroppo la guerra è difficile da camuffare: tutte le circonvoluzioni della politica che parla di pace, di ricostruzione, di peace keeping, di solidarietà, di umanitarismo vengono facilmente spazzate via dalla furia degli eventi. Assieme agli alibi per la buona coscienza: la conferenza internazionale o il mercato legale dell’oppio.

La guerra allora resta nuda e terribile: per farla e possibilmente per vincerla occorre guardarla negli occhi, riconoscere il nemico, essere leali con gli alleati, sostenere le proprie truppe fino in fondo.

Se non si è in grado di fare tutto questo, meglio lasciar perdere. Perché tenere sul campo i soldati vergognandosene o nascondendoli vuol dire esporli ad un rischio inutile e terribile. Vuol dire trasformarle in prede e in bersagli. Sta già accadendo, e due attentati mancati oltre al rapimento di Daniele Mastrogiacomo lo dimostrano.

Il governo ha preso la fiducia alla Camera sul decreto per il finanziamento alla missione in Afghanistan e ora attende, tra un paio di settimane, la prova del Senato. Sono in tanti, troppi, nella sinistra radicale a fremere per dare un voto contrario. Oggi questo desiderio è represso e bloccato dalla disciplina di governo, ma se nei prossimi giorni dovesse accadere qualcosa di drammatico, se la guerra dovesse mostrarsi col suo volto più sanguinario senza più modo distogliere lo sguardo, quella voglia potrebbe trovare l’occasione per esplodere.
Lo sanno anche i Talebani.

Gli intellettuali europei, il punto debole dell'Occidente

Barry Rubin
7 marzo 2007

I regimi radicali del mondo – Iran, Siria e Corea del Nord in testa, insieme alle formazioni estremiste che ne ricevono il sostegno – seguono una strategia di rottura con il codice di comportamento internazionale che sta dando ottimi risultati. L’incapacità dell’Occidente di far fronte a tale approccio, e persino di comprenderlo, è la questione cruciale del Medio Oriente e della politica internazionale degli ultimi decenni. I criteri alla base della vita della comunità internazionale possono essere così riepilogati:
- gli Stati non aggrediscono e non cercano sistematicamente di sovvertire l’ordine costituito degli Stati vicini (ad esempio con il terrorismo) perché consapevoli che potranno incorrere in delle sanzioni;
- i governi cercano di trovare una soluzione ai conflitti, specie se li stanno perdendo;
- gli Stati più potenti, a protezione dei propri interessi, ricorrono alla minaccia dell’uso della forza o alle sanzioni contro gli Stati nemici più deboli;
- gli Stati più deboli evitano di entrare in conflitto con gli Stati più forti nel timore del costo della sconfitta;
- i governi cercano di soddisfare i bisogni dei cittadini per non perdere il loro consenso ed essere riconfermati alle elezioni.

In Occidente, i politici, i diplomatici, gli accademici e i giornalisti si aspettano che gli altri Stati rispettino i suddetti criteri. Quando non lo fanno, spesso interpretano il loro comportamento – per ignoranza o malafede – come se fosse conforme al proprio. Tale metodo può essere chiamato “garanzia di moderazione” perché scoraggia i regimi a comportarsi in maniera avventurosa e mette nelle condizioni di non nuocere chi viola le regole. Da questo punto di vista, la deposizione di Saddam Hussein in Iraq, per quanto controversa, può essere considerata una normale applicazione delle regole della politica internazionale. Un altro esempio di “garanzia di moderazione” è l’equilibrio delle potenze, che in molti casi ha evitato alla conflittualità di sfociare in un vero e proprio scontro armato, come tra Usa e Urss, Grecia e Turchia e India e Pakistan.

A partire dal 1950, però, gli ultra nazionalisti arabi e i regimi islamisti hanno semplicemente gettato via questo codice di comportamento. I paesi meno estremisti, come Arabia Saudita e Giordania, hanno sempre giudicato poco prudente questa politica e hanno messo in guardia i vicini oltranzisti da una reazione violenta dell’Occidente: “Pensate che vi lasceranno sponsorizzare il terrorismo, provocare guerre, rovesciare lo shah in Iran e distruggerne gli interessi ovunque nel mondo?” Ma sorprendentemente i radicali hanno proseguito con la loro strategia e gli importanti successi ottenuti hanno spinto i movimenti di opposizione rivoluzionari a seguirne l’esempio e i paesi cosiddetti moderati ad accentuare la propaganda antioccidentale e ad ignorare gli interessi di Europa e Stati Uniti.

Uno degli elementi centrali di questa strategia è che aumenta in coloro che l’abbracciano la percezione della propria forza e nell’Occidente la percezione della sua debolezza. I radicali hanno molti vantaggi dalla loro parte: ricercano il conflitto e sono pazienti; non si fanno scrupoli morali (cioè non hanno problemi nel compiere stragi) e accettano la sofferenza (o meglio costringono la popolazione alla sofferenza, perché i dittatori non hanno mai problemi di sussistenza). Trattandosi di regimi dittatoriali, l’opinione pubblica non ha alcun valore e viene anzi sfruttata per i loro scopi attraverso la demagogia e il controllo della scuola e dei mezzi di comunicazione.

Al contrario, l’Occidente vuole la pace, è impaziente nella ricerca delle soluzioni e non vuole subire perdite. Trattandosi di democrazie, l’opinione pubblica è frammentata e quindi sensibile alla propaganda estremista. Quali sono, dunque, le regole seguite dai paesi e dalle formazioni radicali:
- l’indifferenza nei confronti dell’equilibrio delle forze. Che importa se il nemico è più forte? Che possono fare, attaccarci? E se pure ci attaccano, lasciamo che la nostra gente soffra per far sentire l’Occidente colpevole;
- l’uso della demagogia all’interno per incoraggiare la pratica del martirio e lanciare campagne di promozione della propria causa all’estero;
- non arrendersi mai anche di fronte alla certezza della sconfitta; mai fare concessioni importanti perché tenere il conflitto aperto può portare in futuro alla conseguimento dell’intera posta in palio. Dimostrare di essere pronti a distruggere tutto e continuare a combattere sempre al fine di scoraggiare il nemico.
- ingannare l’Occidente con la propaganda. Far credere ai governi e alla popolazione che se gli verrà concesso quel che chiedono deporranno le armi. Non mantenere le promesse fatte in cambio di concessioni, perchè l’Occidente non muoverà un dito per costringerli a rispettare gli impegni presi e dimenticherà tutto.
- trattare periodicamente per il raggiungimento di un compromesso, senza però giungere a un accordo definitivo. I leader occidentali hanno fretta di trovare un’intesa per evitare il confronto diretto, fare passi avanti nella risoluzione del conflitto o raccogliere gloria personale.

Così, negli anni ’50 e ’60, il dittatore egiziano Gamal Abdel Nasser disse che se “all’Occidente non piace il nostro modo di comportarci, gli faremo bere l’acqua del Nilo”. Negli anni ’70 e ’80, il dittatore iraniano l’ayatollah Ruhollah Khomeini disse che l’Occidente non può fare un bel niente. Yasir Arafat è stato un terrorista per 30 anni, mentre da Europa e Stati Uniti veniva finanziato e corteggiato per ottenerne la collaborazione. Saddam Hussein, negli anni ’90, disse che non avrebbe mai rispettato quanto la comunità internazionale gli aveva prescritto neppure di fronte a ulteriori sanzioni. Oggi, il pericolo proviene dal programma nucleare iraniano e dalla Siria che sostiene il terrorismo nei paesi vicini.

Ci sono paesi, in particolare India, Israele, Corea del Sud e Turchia, che per sopravvivere sono costretti a rispondere alla minaccia terroristica con uguale durezza, mantenendo allo stesso tempo il supporto dell’opinione pubblica. Al contrario, l’Occidente ha maggiori difficoltà nel combattere il terrorismo, a causa della debolezza dell’Europa e dei suoi intellettuali (la quinta colonna dell’estremismo islamico), della sua priorità per gli elevati standard di benessere e della sua incapacità di sopportare gli spargimenti di sangue. Ciononostante, saranno ancora una volta l’Occidente e il mondo democratico a vincere, grazie proprio al codice di comportamento di cui abbiamo parlato all’inizio. Gli estremisti costringono l’Occidente a combattere sul piano dell’aggressività, ma la superiorità economica e strategica conta. Il problema è che l’aggressività, la superarma radicale, prolunga indefinitamente il conflitto e rende più difficile ottenere la vittoria.

venerdì 2 marzo 2007

Mesic sbaglia su foibe ed esodo.No alla Croazia all'UE

Dure critiche al presidente croato per avere contestato Napolitano: «Tito mise in atto una spietata pulizia etnica ai danni degli italiani»

Il presidente croato Stipe Mesic dovrebbe dimettersi per le sue dichiarazioni sulle foibe: Tito attuò la pulizia etnica ai danni degli italiani, con i quali Zagabria dev’essere solidale. La coraggiosa presa di posizione, assolutamente controcorrente in Croazia, è il riassunto dei passi più significativi di un articolo pubblicato da Globus, importante settimanale di Zagabria. Lo ha firmato il noto giornalista croato Denis Kuljis, dopo che Roma e Zagabria hanno ritrovato un’intesa al termine del braccio di ferro fra Mesic e Giorgio Napolitano sulle foibe e sull’esodo degli italiani da Istria, Fiume e Dalmazia alla fine della Seconda guerra mondiale.
L’editorialista di Globus chiede l’impeachment per il presidente croato e sottolinea che le parole di Napolitano - pronunciate il 10 febbraio, giornata del ricordo della tragedia delle foibe e dell’esodo, che fecero infuriare Mesic - sono sostanzialmente giuste. «Quella attuata dall’esercito di Tito nei territori del Friuli-Venezia Giulia nel dopoguerra è stata null’altro che pulizia etnica, eseguita spietatamente – scrive Kuljis - e con l’intento di eliminare la popolazione autoctona da quelle aree. Un certo numero di italiani è finito nelle foibe, altri sono stati affogati in mare, ma la maggior parte è stata avviata all’esilio con una combinazione tra politiche repressive e rovina economica. Il tutto nell’ottica della cosiddetta tecnica rivoluzionaria dell’espropriare l’espropriatore».
Kuljis spiega che nel 1910, nelle regioni fiumana, triestina, goriziana e zaratina, ben prima dell’avvento del fascismo, il 61% della popolazione era di madrelingua italiana, il 25% slovena e solo il 13,5% croata. «Dopo la guerra, e stando alle fonti croate, da quelle regioni i comunisti avevano cacciato 220–225mila persone (350mila per le fonti italiane), di cui 188mila dai territori ora Croazia», ricorda Kuljis. Il giornalista di Globus scrive che un destino simile, se non peggiore, toccò anche alla minoranza tedesca che viveva in Slovenia e nelle regioni della Slavonia e della Vojvodina, oltre a turchi e albanesi in Macedonia e Kosovo.
In tutto un milione di persone fu costretto ad emigrare da liquidazioni di massa, espropri e pressioni politiche. Un progetto pianificato dal regime di Tito, sottolinea Kuljis, piano di cui è doveroso parlare: «Non siamo noi i colpevoli per quanto perpetrato 60 anni fa, ci sentiamo invece solidali con gli italiani».
Il giornalista croato fa notare, inoltre, che al fianco di Mesic, come consigliere per la politica estera, c’è Budimir Loncar. Classe 1924, fedelissimo di Tito, che era croato, ricoprì in Dalmazia ruoli di rilievo nel Partito comunista e secondo Kuljic era il capo dell’Ozna, la famigerata polizia segreta a Zara e dintorni. Ultimo ministro degli Esteri della Jugoslavia, Loncar è oggi consigliere di Mesic: si comincia a capire lo scivolone anti-italiano della Croazia.

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