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lunedì 27 novembre 2006

Senza Radici



Studente Nicola Santoro
SENZA RADICI
Marcello Pera e Joseph Ratzinger
Mondadori, 2004

L’Europa come l’Impero romano al tramonto: l’Impero che subisce invasioni, perde la sua identità, certamente conserva la sua cultura e i suoi principi, ma che man mano, non essendo questi alimentati di fede e di fiducia, decade. Da qui la prima ed essenziale domanda per l’Europa: «c’è davvero il rischio di subire la stessa fine dell’Impero Romano? Cioè lo svuotamento, la paralisi, la crisi circolatoria… trapianti che ne cancellano l’identità?». L’Occidente attraversa uno dei momenti più delicati della sua storia, quello di un passaggio epocale da una cultura a un’altra. La cosa non è indolore. Rimanere ancorati alla nostalgia dei bei tempi e rifiutare il nuovo non serve. Ritenere, al contrario, che quanto sta accadendo sia solo frutto del progresso e della conquista di diritti finora negati è un’illusione che non serve perseguire. Se ci sono delle sfide poste sul tappeto, allora devono essere affrontate con la coscienza di darne una risposta che abbia senso.
In questo contesto, le pagine di Senza radici sono una risposta coraggiosa e per molti versi lungimirante. Meraviglia che da due fronti così diversi, quali quelli di Joseph Ratzinger e Marcello Pera, agli stessi interrogativi possano giungere risposte similari e convergenti. Il filosofo laico-liberale, estimatore di Karl Popper, e il futuro Benedetto XVI non solo si confrontano, ma delineano spazi di azione su cui confluiscono per disegnare un cammino comune da perseguire. Un laico che la pensava come il presidente della Congregazione per la dottrina della fede. In un paese come il nostro, che ha voluto sottolineare sempre l’indipendenza del mondo «laico» da quello religioso, fino a sfiorare l’incomunicabilità tra i due, tocca al Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e al presidente del Senato italiano mettersi a tavolino per abbozzare una sintesi su alcuni obiettivi da perseguire insieme. Alle due lezioni parallele, segue una lettera di Pera a Ratzinger, con risposta. Un dramma in quattro tempi. Colpisce come alla fine ci sia molta speranza.

Afferma Ratzinger: «L’Europa, proprio nell’ora del suo massimo successo, sembra svuotata dall’interno, come paralizzata da una crisi circolatoria, una crisi che mette a rischio la sua vita affidandola a trapianti che ne cancellano l’identità. Al cedimento delle forze spirituali portanti si aggiunge un crescente declino etnico. C’è una strana mancanza di voglia di futuro». Gli fa eco Pera: «Nell’era del relativismo trionfante e dell’apostasia silenziosa, il vero non esiste più, la missione del vero è considerata fondamentalismo e la stessa affermazione del vero fa paura e solleva timori». Si percepisce immediatamente l’obiettivo dei due: mettere a nudo, senza timore, la diagnosi sui mali del momento. La provocazione che è alla base del libro: se l’Europa vuole avere un futuro, allora è necessario che prenda un’altra piega. Qui non è più questione di cercar di eludere o di pretendere che la ragione stia sempre da una sola parte.
I problemi che di volta in volta vengono affrontati in queste pagine costituiscono una vera base di dibattito culturale che merita molto di più di poche pagine riassunte.Il lettore sarebbe ingiustificato se dovesse fermarsi alla sola analisi della guerra in Iraq e al giudizio sui movimenti pacifisti di casa nostra che fatalmente dimenticano sempre altri focolai di guerra, senza addentrarsi poi in questioni che riguardano il concetto stesso della vita umana, dal suo inizio alla sua conclusione, dei problemi di bioetica, della sperimentazione sugli embrioni, del senso della democrazia e della pretesa dei diritti soggettivi a essere riconosciuti, prescindendo da ogni rapporto con quelli fondati nella natura stessa. «Qual è la nostra cultura, che cosa ne è rimasto?». L’interrogativo, non affatto retorico, porta il cardinale Ratzinger a concludere con l’amaro in bocca che quel modello di civiltà che aveva segnato nei secoli passati il progresso di intere nazioni sembra oggi emarginato; anzi «la sua cultura e la sua fede, ciò su cui si basa la sua identità, è giunto alla fine e anzi già uscito di scena; che è giunta l’ora dei sistemi di valori di altri mondi, dell’America precolombiana, dell’Islam, della mistica asiatica».
Non meno tagliente è la risposta dei presidente Pera: «Questa patologia si avverte dappertutto e io la percepisco soprattutto in quella gabbia di insincerità e ipocrisia che è il “linguaggio politicamente corretto” in cui l’Europa si è rinchiusa semplicemente per paura di dire cose che non sono affatto scorrette, ma banalmente vere e per evitare di fare fronte alle responsabilità e alle conseguenze delle cose eventualmente dette». Parole che smascherano la crisi dentro cui ci siamo impantanati.
1) Pera :L'Occidente ha una malattia. Si chiama relativismo. Inizia Pera affermando che l’occidente ha una malattia che si chiama relativismo. Significa questo: non credere si possa attingere alla verità. Non soltanto alla verità assoluta, ma a qualsiasi valore morale oggettivo. Ha scritto Friederich Nietzsche: " I fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni " . Questa è diventata la legge della cultura europea: chiunque affermi che una cosa è meglio dell'altra, con pretesa di far valere questo giudizio, è condannato in nome del politicamente corretto. Risultato? Se la ragione non può attingere nulla che sia valido in sé, a prescindere dal contesto, ecco che una civiltà vale l'altra. Questa fragilità si può notare dinanzi alla guerra dichiarataci dall'Islam fondamentalista. " Oggi l'Occidente è paralizzato due volte. Perché non ritiene ci siano buone ragioni per dire che esso è migliore dell'Islam. Ed è paralizzato perché ritiene che, se queste ragioni ci fossero, allora dovrebbe combattere l'Islam " . Non bisogna per forza dar guerra, ma riconoscere che qualcuno ce l'ha dichiarata.
E rispondere. C'è un problema ulteriore. Questo relativismo non vince soltanto tra atei e laici, ma anche nella Chiesa cattolica. Anche la Chiesa ha tradito la sua missione. In essa il dialogo non è più inteso come strumento di conversione, ma esibizione di debolezza. Anche Cristo è stato relativizzato, e proprio dai teologi: per essi non è più l'unico salvatore, ma una delle vie attraverso cui si palesa il divino. Il popolo cattolico predilige questa visione riduttiva. Infatti i fedeli, scesi in piazza vivacemente con le bandiere della pace, non hanno poi voluto manifestare perché fossero marcate nella Costituzione le radici cristiane dell'Europa. Un peccato mortale. Da quelle radici origina l'idea d'individuo. Questa nostra civiltà è unica, in fondo superiore grazie a questa eredità: sa correggersi, sa accogliere gli altri, come dice il crocefisso. Lo dico da laico. Non possiamo dimenticare chi siamo. " Dobbiamo cominciare a stropicciarci gli occhi e a svegliarci " . Altrimenti? Altrimenti è finita.
2) Ratzinger: L'Europa non è un concetto geografico, ma spirituale. E' coincisa con la cultura dell'Impero romano, espandendosi in ogni direzione, fino alla Persia. Poi, in continuità, è stata cristiana. I confini sono stati poi segnati dall'Islam che ha tagliato in due il Mediterraneo. L'Europa ha vissuto il suo momento di crisi radicale con l'Illuminismo, e la contrapposizione tra ragione e fede. Si è creata una spaccatura violenta tra laici e cristiani. La ragione però senza la fede, senza la sua base cristiana, si è sciolta nella assoluta irrazionalità. Il materialismo ateo è ultima espressione di questo processo. Con il comunismo, " il capovolgimento dei valori che avevano costruito l'Europa è completo " . Il comunismo infine è crollato: ma non soltanto per la sua debolezza economica, bensì proprio per la rinuncia " alle certezze primordiali dell'uomo su Dio, su se stessi e sull'universo " . Invece l'Europa continua su questa strada di autodistruzione. Se si rinuncia ai valori morali intangibili, della persona, della famiglia, è finita. Può risorgere soltanto se " minoranze creative " ( come prefigurò Arnold Toynbee) vivendo esperienze umane vere ne impediranno l'annichilimento.
3) Pera scrive a Ratzinger. Noi laici non possiamo più contrapporci ai cattolici, dubbio contro dogma. Abbiamo un nemico comune, il relativismo: ci disarma contro l'Islam generando un pacifismo per cui nulla è degno di essere difeso fino al sacrificio. Questa malattia è indotta e propagata da filosofi di matrice laica. " E la Chiesa e la cultura cristiana, soprattutto il clero, li seguono in questo pacifismo " . Alleiamoci. Occorre riconoscersi - laici, cattolici, protestanti - in una " religione cristiana non confessionale " . In cui, paradossalmente, credano anche i non credenti. Stato e religione devono rimanere separate, certo. Ma è necessario insieme guardare ad alcuni valori fondanti la nostra convivenza ed è bene si riflettano nella legge senza confondere beninteso fede e morale. Ad esempio a proposito di famiglia tradizionale, nella bioetica e nell'ingegneria si possono trovare punti di incontro saldo. Chiedo ai laici l'onesta ammissione che l'embrione è comunque persona, ma ribadisco: in certi casi può essere sacrificato per altre vite. Vedremo che fare. Di certo occorre si affermi in Europa una sorta di religione civile, insieme privata e pubblica. " L'impresa non è facile. Ma non è impossibile " .
4) Ratzinger scrive a Pera. Del resto l'America si regge su questa religione civile. Essa non nasce a tavolino, ma dall'incontro tra persone che tengano viva la domanda religiosa, su cui si fonda la stessa democrazia (Alexis de Tocqueville lo dice). Ribadisco però: sulla bioetica la difesa della vita, dell'embrione non è etica della fede ma della ragione. Da lì non ci spostiamo, rivendichiamo in questo il diritto a una "resistenza passiva". Confidiamo non sia necessario. Del resto solo la testimonianza data da minoranze creative cristiane alla fine impedirà la catastrofe. La speranza dell'Europa sta in questo risorgere della fede in piccoli gruppi, che contamini come lievito la pasta e sani la frattura tra laici e cattolici. Così torneranno per tutti " vincolanti i grandi principi hanno edificato l'Europa e devono e possono ricostruirla" .

Nel libro Ratzinger fa notare come il fenomeno della universalizzazione della cultura europea – che ha diffuso i suoi principi, i suoi valori, le sue istituzioni (democrazia, diritti costituzionali ecc…) in America ed ora anche in Africa e in Asia – abbia coinciso con la secolarizzazione, che ha accompagnato prevalentemente un progresso scientifico e tecnologico sempre più rapido, e poi anche con un ritiro della sfera religiosa e morale in ambiti prevalentemente soggettivi e non pubblici (ancora oggi si discute circa la presenza o meno nella sfera pubblica della religione o della morale). Ed ecco il paradosso: mentre L’Europa, e in gran parte l’Occidente, vive il periodo della sua massima espansione in termini di conquiste materiali, costituzionali, civili, politiche e sociali, al tempo stesso vive un declino di carattere culturale e spirituale. In concreto tale declino altro non è che la mancanza di fiducia in se stessa. Ciò significa che mentre l’Europa esporta i prodotti della sua civiltà (democrazia parlamentare, costituzioni, ricerca scientifica e tecnologica) comincia a credere poco nella civiltà sua medesima, nei principi che ne sono alla base. C’è una strana mancanza di voglia di futuro, e ne è un esempio il fenomeno della denatalità, come osservava Ratzinger: «i figli, che sono il futuro vengono visti come una minaccia per il presente, ci portano via qualcosa della nostra vita, non vengono sentiti come una speranza bensì come una limitazione».Pera ha proseguito: «a questo fenomeno di declino e mancanza di fiducia nell’identità europea si affianca un fenomeno di rinascita religiosa dell’Islam dovuta anche alla convinzione di grandi masse che quella religione, per loro, fornisce un’identità forte, che dunque si confronta con quella europea, sempre più affievolita». Fin qui l’analisi del Presidente del Senato prende atto di una situazione esistente. Ma le riflessioni più scomode, perché di autoanalisi, non tardano. Ad avviso di Pera, vari sono i campanelli d’allarme. «Gli occidentali non percepiscono più né il concetto di dignità dell’uomo né l’origine storica in cui tale concetto si è formato. Da dove deriva il concetto di dignità della persona? Non certamente dalla tradizione greca, non esattamente da quella romana ma indiscutibilmente dalla religione giudaica e dalla religione cristiana. Nella Genesi c’è scritto: – L’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio – Ma se l’uomo è ad immagine e somiglianza di Dio , allora l’uomo è persona, cioè l’uomo è maschera cioè nasconde con la maschera la sua vera identità,la sua vera essenza. Quindi l’uomo è soggetto di rispetto, è soggetto di dignità inviolabile».Riguardo all’attuale situazione culturale dell’Occidente Pera ha parlato di collasso circolatorio, a causa del quale gli occidentali non percepiscono più né il concetto di dignità dell’uomo né l’origine storica in cui tale concetto si è formato. Al momento di redigere una Costituzione europea che fissasse i principi comuni ci fu come è noto la difficoltà di riconoscere nel preambolo l’identità religiosa e dunque nel testo si richiamano solo generalmente e banalmente le eredità culturali, religiose ed umanistiche senza entrare nello specifico. Affermare che i principi fondamentali dell’Europa provengono dalla tradizione giudaico-cristiana non significa offendere la tradizione islamica ma semplicemente dare atto delle proprie origini. Un errore dunque non aver introdotto nel preambolo della Costituzione europea le radici cristiane in nome di una presunta nobile causa: la tolleranza. Come ricorda Benedetto XVI: «la tolleranza senza verità è ipocrisia». Qui si tratterebbe, infatti, di annichilire le nostre origini per non mancare di rispetto agli altri popoli. Singolare comportamento, ad avviso di Pera, dato che gli islamici ci accusano non tanto per la nostra religione quanto per il fatto di non aver religione… per la secolarizzazione imperante.
Senza radici è un atto d’accusa non tanto a chi ha voluto fare orecchie da mercante nell’inserire un riferimento al Cristianesimo nella nuova costituzione, ma a quanti insistono nel volerle negare come se il Cristianesimo fosse un puro fatto marginale della nostra cultura o una superstizione da cui doverci presto liberare. Ha ragione il presidente Pera nell’insinuare che la Chiesa non è estranea a questo processo perché troppo timida nella sua opera di evangelizzazione? È un interrogativo a cui anche gli uomini di Chiesa dovranno rispondere.
«C’è un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico». Sono, probabilmente, le parole più forti e drammatiche che si ritrovano all’interno di questo volume .Un sano realismo è ciò che serve a tutti per recepire il positivo di queste riflessioni e assumersi la responsabilità per come dovremmo proporre il futuro. Come prima conclusione sottolinerei il diritto di riaffermare la propria identità e le proprie radici debba essere la condizione prioritaria per poter avere un ruolo e per poter unificare l’Europa ...senza diventare dogmatici, imperialisti, arroganti, ma neanche rimanendo vittime del sistema imposto dal pensiero politicamente corretto: questo sarebbe un errore fondamentale, un ricatto. Parlare della propria identità non significa essere contro il dialogo. «No – ha affermato Pera – anzi è il contrario. Il dia-logos (che viene tra l’altro dalla tradizione di Socrate) presuppone due interlocutori di pari dignità, con pari diritti, ognuno con una propria convinzione ugualmente rispettabile. Ma oggi non è così. Nel contesto attuale la parola dialogo serve solo per mascherare una resa. Stiamo vivendo il declino intellettuale dell’Europa e lo si vede anche dal fatto che si condannano coloro che offendono le altre religioni e di fronte alla propria ci si ritira, e addirittura vengono messi da parte i propri simboli per non esporsi alle accusa di dogmatismo ecc…» «Noto un notevole senso di smarrimento, di disagio. Tanta gente ha bisogno di guide» esclama Pera. Personalmente noto anche un grande successo del Papa, soprattutto tra i giovani. Enormi sono le folle attorno a questo pontefice tedesco, timido, apparentemente freddo. Dal disagio, dallo smarrimento, talvolta dalla paura, nasce un bisogno. E la politica, la politica nobile, deve farsi interprete di questo bisogno, deve richiamare alla responsabilità. E lo devono fare con umiltà e con responsabilità, non solo i politici ma anche le università, le accademie, le parrocchie, i circoli e i salotti.

venerdì 24 novembre 2006

Onore ai militari italiani


C’eravamo sbagliati. Avevamo creduto che il ricordo della strage di Nassiriya si fosse affievolito e fosse destinato ad estinguersi: ora sappiamo che non è così.

Ne abbiamo avuto la dimostrazione durante il corteo pacifista di Roma (quello con Diliberto e compagnia), dove lo slogan gridato con più foga e convinzione era “10, 100, 1000 NASSIRIYA”.

In quel corteo dove i “pacifisti” bruciavano bandiere e manichini di soldati e si auguravano mille stragi, si è visto che il ricordo di Nassiriya è ben vivo ed è assurto a simbolo capovolto e demoniaco di odio verso coloro che fanno della pace una missione per cui rischiare la vita.

A questo ricordo osceno occorre allora contrapporre la memoria vera di Nassiriya e dei 19 italiani, tra militari e civili che vi lasciarono la vita. E se per la pazzia dei nostri “no-global” o come diavolo si chiamano, Nassiriya è l’evento simbolo di una loro indecifrabile vittoria, bisogna che quel simbolo sia recuperato per intero al circuito civile della nazione.

Non servono allora le iniziative evasive, come quella proposta dalla senatrice Calipari, che con un suo disegno di legge propone di dedicare alla memoria dei caduti in missioni internazionali una data scelta a caso (il 2 dicembre).

Anzi, ci pare che la natura stessa della sua iniziativa, ricalcata con la carta carbone dal disegno di legge promosso da Magna Carta, celi un intento dilatorio per trarre dall’imbarazzo una sinistra in parte timida e in parte compromessa.

Se c’è una data da difendere dall’oblio e dal fango della piazza quella è il 12 novembre, giorno della strage di Nassiriya. E’ attorno a questa che bisogna unirsi se non vogliamo che resti appannaggio dell’infamia di Diliberto e dei suo amici.

p.s. vorrei ringraziare mio fratello Enzo che stà in Afghanistan per il mantenimento della pace in una terra che non è la sua. Grazie a persone come lui che mi sento fiero di essere italiano e sperare in qualcosa di diverso...
Spero che nè tu,ne nessun tuo collega dovrà essere infamato da quella seccia di estremisti della sinistra italiana. Un giorno la tua missione verrà studiata sui libri di storia (spero per i suoi risultati positivi).TENETE DURO!DURI A MORIRE!!

mercoledì 22 novembre 2006


scendo in piazza

Il Molise consola gli esclusi


Da poco ci sono state le elezioni regionali ed è stata data una buonuscita ai consiglieri di 1 milione di euro.Malgrado ha vinto la mia coalizione per la seconda volta io vorrei segnalare questo abuso. In una regione di 300 mila abitanti,la sanità in deficit,le scuole crollano,terremotati senza case,strade interrotte...i conseglieri regionali guadagnano quanto dei parlamentari e gli danno pure una buona uscita di 1 milione di euro.

I consiglieri regionali uscenti non ce l'hanno fatta a tornare in Consiglio oppure non si sono ricandidati? Niente paura, per loro è in arrivo una lauta buonuscita. Pagata, naturalmente, dai contribuenti molisani.

La Regione consola gli esclusi:
1 milione di euro di buonuscita
Per facilitare “il reinserimento nel mondo del lavoro”, una legge del ’74 elargisce soldi ai 21 ex consiglieri non rieletti: 72mila euro a Patriciello e Di Sabato, 51mila a Di Brino e Porfido, 42mila a di Rocco, eccetera. I diretti interessati dicono che la legge non ha più senso, ma si sono ben guardati dal cambiarla. Anzi: nel corso degli anni i privilegi sono stati potenziati.

L’onorevole Aldo Patriciello (Udc), europarlamentare, socio di decine di imprese edili nonché proprietario della famosa clinica sanitaria Neuromed di Pozzilli, dopo undici anni passati sui banchi del Consiglio Regionale ha bisogno di un aiutino economico per il reinserimento nel mondo nel lavoro. Glielo si potrebbe forse negare? Proprio no, e infatti “Mamma Regione Molise” gli liquida 72mila euro e qualche spicciolo (quasi 150 milioni di vecchie lire) perché non abbia da trovarsi con le tasche al verde in attesa di un nuovo impiego. La stessa cifra sta per essere versata anche sul conto corrente dell’ex consigliere regionale Antonio D’Ambrosio (Ds). I molisani non l’hanno voluto a Palazzo per la terza volta? Beh, dopo oltre un decennio di duro lavoro in politica un cospicuo ‘premio di reinserimento’ per il tempo sottratto all’attività di bancario, che svolge a Campobasso, è il minimo. Lo stesso dicasi per Italo Di Sabato (Rifondazione Comunista) che decidendo motu proprio di non candidarsi in questa tornata elettorale, si è praticamente licenziato dal Consiglio regionale. Ma visto che la sua attività da laico è stata interrotta per ben tre legislature, la Regione gli viene incontro per il suo reinserimento (i maligni dicono: “per il suo primo inserimento”) nel mondo del lavoro: pure a lui 72 mila e rotti euro.

Anche l’ex consigliere Domenico Porfido (Forza Italia) fa parte della nutrita schiera dei ‘trombati’ in Regione. Ma – va detto - ha pur sempre sacrificato sei anni e mezzo della sua vita in un impegno a favore della collettività, attivo in prima linea per lo sviluppo del Molise quando avrebbe potuto benissimo dedicarsi anima e corpo alla sua professione, quella di avvocato: anche a lui, quindi, una sacrosanta buonuscita, questa volta di 47 mila euro circa, che gli servirà certamente per ammortizzare i devastanti effetti dell’impatto con le aule giudiziarie e i tribunali al termine di due legislature occupate a saltare dalla coalizione di centrosinistra a quella di centrodestra e poi al faticoso rituale di stare nella stanza dei bottoni.
Un po’ meno – 36 mila euro e rotti - spettano a Pino Gallo (Udeur) che in Consiglio ci ha passato solo cinque anni, mentre nel caso di Angelo Pio Romano (Udc) la somma lievita essendo stato, l’ex dirigente regionale, anche assessore: per lui un bell’assegno di 66 mila 500 euro.

Cambiano le cifre, ma lo spirito è identico: tutti gli ex consiglieri regionali, sia quelli che si sono ricandidati ma non ce l’hanno fatta sia quelli che hanno deciso di non rimettersi in gioco, hanno diritto al cosiddetto “premio di reinserimento”, una sorta di liquidazione degli scartati della cui esistenza pochi sono al corrente.
Complessivamente la Regione Molise dovrà sborsare quasi la bellezza di un milione di euro. Due miliardi di lire per garantire un rientro soft agli ex amministratori dell’ente più importante del territorio nei rispettivi posti di lavoro. Che siano dipendenti pubblici o lavoratori privati, che siano pensionati o disoccupati, imprenditori o liberi professionisti, non fa differenza: il reinserimento tocca a tutti, e viene considerato sulla base dell’ultima indennità ricevuta in Regione. Se, per esempio, uno è stato presidente di una commissione durante gli ultimi mesi di legislatura, il premio gli viene riconosciuto calcolando quella indennità (più alta rispetto a quella di semplice consigliere) per gli anni di mandato elettorale. E’ il caso di Antonio Di Rocco (Nuova Dc) che si consolerà dalla bocciatura inflittagli dagli elettori con i 42 mila euro che gli spettano in quanto ex presidente di commissione.

Vergognoso? Indecoroso? Anacronistico? Niente di tutto questo. E’ tutto perfettamente legale, sancito e codificato da un popò di leggi che regolano la complessa materia dello stato giuridico dei consiglieri regionali, le cui indennità – va ricordato – sono state parificate a quelle dei parlamentari nel 1997. Ecco le cifre mensili (esclusi i rimborsi spese che di fatto raddoppiano la busta paga): 11mila euro per il presidente della Giunta e per quello del Consiglio; 9500 euro per gli assessori e il vicepresidente del Consiglio; 8400 euro per i presidenti delle Commissioni consiliari e infine 7300 euro ai consiglieri semplici. Spicciolo più, spicciolo meno.

Su questa base si calcola il premio di reinserimento, che si ottiene da una banale moltiplicazione matematica, così come recita la legge n. 2 del 1984: “La misura dell'indennità è stabilita, per ogni anno di mandato esercitato, in una mensilità dell'indennità lorda prevista per la carica di Consigliere Regionale, in godimento nel corso del mese in cui si verifica la cessazione dalla carica, fino ad un massimo di 10 mensilità”.

Tutto chiaro. Con qualche dubbio da sciogliere, però. Prendiamo ancora Di Rocco. A lui ora spettano 42 mila euro (che devono essergli versati “entro 40 giorni dal voto”): ma se Chieffo, che lo ha sopravanzato nel numero di preferenze, dovesse dimettersi da Consigliere regionale per fare l’assessore, Di Rocco gli subentrerebbe automaticamente. A quale tipo di reinserimento al lavoro servirebbe, in quel caso, il malloppo già intascato dal politico termolese?
Stesso discorso per l’ex assessore Quintino Pallante (Alleanza Nazionale): incasserà 47mila euro e rotti, e quel denaro non glielo toglierà nessuno, nemmeno se – come appare quasi scontato – da qui a tre mesi entrerà nella nuova Giunta Iorio come assessore esterno o andrà a occupare il posto in Consiglio della Fusco Perrella nel caso sia lei a diventare assessore. La legge è chiarissima: l’imprenditore di Frosolone, che non ha mai ‘mollato’ l’azienda di famiglia, ha diritto al premio di reinserimento nel mondo del lavoro. Più controversa invece la situazione di Gianfranco Vitagliano (Forza Italia). Lui pure è stato assessore, ma per farlo si era dimesso da Consigliere: ha ugualmente diritto alla buonuscita di 47 mila euro? Il dibattito è aperto.

Così come è aperto il dibattito su altri tre casi complicati: quelli di Di Domenico, Terzano e Orlando. Erano stati consiglieri fra il 1995 e il 2000, non rieletti nel 2000, ma nuovamente entrati in Consiglio (Terzano pure assessore) nella legislatura iniziata nel 2001. Quindi, dopo essere già stati rimpinguati di denaro nel 2000 per il loro reinserimento nel lavoro, ora, a sei anni di distanza, vengono re-reinseriti con un altro bel malloppo che sta fra i 7200 euro di Orlando (un solo anno di legislatura, ma nel 2000 intascò un premio equivalente all’indennità di 10 mesi) e i 36 mila di Di Domenico. A meno che – e c’è una scuola di pensiero che lo sostiene – non abbiano diritto adesso a una “liquidazione” ancor più alta che tenga conto anche negli anni passati a Palazzo Moffa fra il ’95 e il 2000.

A sentire i consiglieri regionali, sia i riconfermati che gli esclusi, sembrano tutti d’accordo – a destra come a sinistra – sul fatto che si tratta di una legge superata, entrata in vigore in un’epoca in cui davvero per fare il consigliere bisognava lasciar perdere la professione, con relative perdite economiche. Nessuno però – nè a destra nè a sinistra – ha mosso un dito per modificare, ridurre o sopprimere il privilegio.

Era il 1974 quando il Premio di reinserimento venne istituito la prima volta dalla Regione Molise. Da allora è stato aggiornato, rivisto, corretto, mai però eliminato. In realtà è stato ‘migliorato’, naturalmente a vantaggio dei beneficiari. Fino a dieci anni fa era ricavato da un fondo cosiddetto di solidarietà: i consiglieri versavano il 6 per cento della loro indennità mensile in una cassa comune, che fra le varie funzioni aveva appunto quella di fronteggiare l’indennizzo. Naturalmente la somma non bastava a coprire le laute buonuscite, perciò veniva integrato “con altri eventuali contributi o elargizioni”. Che, detto in parole meno complicate, significa i soldi di tutti i cittadini contribuenti.

Nel 1996 quel fondo è stato abolito, inglobato nella cassa previdenziale dei consiglieri, i quali lasciano nei depositi della regione il 22 per cento circa dei compensi che vanno a costituire il fondo pensioni. Già, le pensioni: altro privilegio, questo, dai contorni flessibili. Si chiama vitalizio (perchè viene elargito, dai sessant’anni in su, vita natural durante) e si calcola in proporzione agli anni di mandato (quindi di contributi versati) sull’indennità mensile lorda. Può essere ‘basso’, più o meno di 2500 euro (il 30 per cento dell’indennità di consigliere che ha svolto il mandato per 5 anni) o può arrivare a 6000 euro e più nel caso di quei consiglieri rimasti agganciati alle poltrone di palazzo per oltre dieci anni. La legge che disciplina l’assegno vitalizio è la n. 10 del 1988. E’ la stessa che prevede un anticipo della pensione: si può incassare il vitalizio anche a partire dai 55 anni, sebbene leggermente ridotto rispetto ai parametri standard. E si ha diritto al vitalizio pur avendo svolto un mandato inferiore ai 5 anni: basta versare i contributi retrospettivi. Insomma, un’ampia flessibilità anche in questo caso.
Ovvio che il fondo pensioni è insufficiente a garantire il vitalizio a tutti. Così, anche in questo caso, la pensione dei consiglieri (anche di quelli che una pensione già ce l’hanno, frutto di un lavoro che hanno fatto fino all’ultimo giorno utile) viene pagata in parte dai cittadini.

Tornando al premio di reinserimento. Abbiamo fatto qualche calcolo, per stabilire caso per caso quanto prenderanno gli ex consiglieri e assessori regionali della legislatura che si è appena conclusa: 7200 euro per Orlando e Di Biase; 28 mila 500 a Terzano; 36370 euro per Gallo, Di Domenico, Di Lisa, Caterina, Sozio; 42 mila a Di Rocco; 47500 a Pallante e Nagni; 50900 a Di Brino, Porfido e Di Stasi; 58700 a Paglione; 66500 a Pio Romano; 72700 a Di Sabato e D’Ambrosio. A questi vanno aggiunti i 72700 incamerati da D’Ascanio e da Patriciello lo scorso giugno quando si sono dimessi da palazzo Moffa dopo 11 anni (il primo per reinserirsi nel lavoro come presidente della Provincia, il secondo per reinserirsi al parlamento Europeo) e i 21800 euro messi in tasca nel giugno del 2004 da Di Fabio, reinseritosi nel lavoro come sindaco di Campobasso. Rimane infine l’incognita Vitagliano, in bilico fra zero e 47.500 euro.
Il totale fa 953 mila euro. Se si aggiungono i 47 mila di Vitagliano, si arriva a un milione di euro tondo tondo.

Visto che trovare le leggi nel labirintico sito internet della regione Molise, che sembra ideato e progettato da qualche genio della fuorvianza, è stata un’impresa a dir poco difficile, è possibile che in virtù di qualche non meglio precisata revisione legislativa le cifre possano essere lievemente sbagliate. I consiglieri regionali che ci hanno agevolato nella verifica di questi dati preferiscono non venire citati, e noi li capiamo. Le somme pubblicate sono state arrotondate per difetto, ma appunto, essendo complicato il calcolo, è possibile che qualche piccolo errore sia stato commesso. Scontato perciò ricordare che eventuali precisazioni saranno gradite.

Palmiro Togliatti

“Il migliore” per i comunisti, vero capo del Partito. Instancabile macchina da lavoro, infaticabile operatore culturale, staliniano di terra: spese la vita al servizio di una ideologia spietata e crudele.

La vita di Palmiro Togliatti, dal 1893 al 1964, traversò come una meteora triste e tragica il XX secolo che fu chiamato “delle idee assassine”. Operò In Italia, Francia, Spagna, Germania. Unione Sovietica, come militante e dirigente comunista del Komintern fra i maggiori, estendendo la sua influenza fino al Nuovo Mondo ed all’America Latina, per esempio Cuba. “Uomo solo” per indole e vigilanza cospirativa, fu un intellettuale ottocentesco, in gran parte conservatore ed elitario, letterato che non disdegnava le penne di pavone polemico, instancabile operatore culturale, infaticabile “macchina da lavoro”, staliniano per convinzione e dottrina, fautore della teoria e della pratica spietata del “socialismo in un paese solo”. Sostenitore verbale del “policentrismo”, ma sempre avvinghiato all’URSS come “casa madre” da un legame di ferro, ebbe influenza nella storia e nella vita sovietica, di cui conobbe e praticò le vicende politico-sociali con raro settarismo. Dominatore di fatto del Partito comunista italiano, segretario dal 1926, combattuto e mai vinto al proprio interno, morì a Yalta sul Mar Nero dove si era recato in agosto, disertando per quell’anno l’amata Val D’Aosta dalle montagne famigliari. A Mosca era andato per perfezionare il complotto, guidato dall’emergente Breznev, contro Krusciov, accusatore giudicato rozzo e inopportuno dei crimini di Stalin, al quali egli stesso aveva dato mano in Ucraina.

Togliatti era nato a Genova, terzo di quattro figli di una famiglia di funzionari sabaudi di idee monarchiche e di attaccamento ai valori delta religione, avendo come parenti un cappellano del santuario di S. Ignazio e una suora salesiana, studente a Sondrio, Sassari e Torino, sempre “in dignitosa povertà”. Nella capitate piemontese si realizza l’incontro con Antonio Gramsci, di due anni più vecchio, sardo anzi irredentista, che usufruisce della stessa borsa di studio che è intestata a re Carlo Alberto. Entrambi, i due giovani borsisti, confermano le proprie inclinazioni socialiste, scelgono di militare nella Sezione territoriale più spiccatamente operaia, di cui sostengono le iniziative di occupazione delle fabbriche, spaziano tra l’adesione alla cultura storica del meridionalista Salvemini sino all’agitazione parolaia e interventista di Mussolini, nella pratica iscrivendosi nella frazione comunista-astensionista influenzata da Amadeo Bordiga. Togliatti viene eletto segretario della Sezione e partecipa alla pubblicazione assieme a Gramsci, Tasca, Terracini della rivista “L’Ordine nuovo” che diviene l’organo di battaglia della tematica rivoluzionaria del Consigli operai. Si crea cosi un nucleo intellettuale di alto livello che rompe con la politica ufficiate del socialismo italiano e nel gennaio del 1921 ne provocherà la scissione, dando vita con il Congresso di Livorno al Partito comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale. Il gruppo sembra in superficie compatto, ma esso e in effetti profondamente diviso per questioni di carattere, di preparazione culturale: si scomporrà ben presto, con violenza e rancore, dando luogo alla più disastrosa separazione della sinistra operaia, alla più cruenta dispersione e persecuzione degli uni contro gli altri. Togliatti vi appare come il più esperto in lotte di frazione e di potere, incline ad accordarsi con i vincitori; Gramsci invece il più sensibile alle esigenze dell’ideate, della irrinunziabilità della democrazia. del diritto della minoranza a contare. Gramsci dal 1926, benché eletto deputato del Veneto, passerà dieci anni al confino e in carcere: Togliatti farà poco, anzi nulla, per agevolare la liberazione del detenuto; si aggirerà in una prigione volontaria, entusiasticamente accettata e condivisa, degli abusi repressivi del sistema staliniano, vasto come tutto il mondo del “socialismo reale” imposto con la forza, da Mosca a Pechino. A ben guardare, il nocciolo del XX secolo della stona del marxismo vivente e delle sue deformazioni sta in questo amaro contrasto Gramsci-Togliatti e si ingrandisce nella disputa insanguinata che come una febbre tormenta la società, ne esaspera i contrasti, non ne allevia le ingiustizie, le accresce in un cumulo di orrori cui Togliatti partecipa, dall’URSS ella Spagna della guerra civile dal 1936 al 1938.

Quando nel 1926, Ercoli, ossia Togliatti, viene chiamato come membro eminente dell’Esecutivo del Komintern, a restare a Mosca, dalla quale si muoverà per missioni di dirigente d’alto rango, il suo destino si identifica con la tragedia del comunismo mentre il capo sardo viene, lo stesso anno, sottratto alla vita civile e agli affetti umani Togliatti si incarta nell’ideologia; Gramsci tenta di difendersene e si avvia verso la morte annunziata che avverrà il 27 aprile del 1937, in circostanze per alcuni aspetti oscure. Togliatti percorrerà come a cavallo quasi l’intero secolo fino alla sua seconda metà: senza che un dubbio lo sfiori, un ripensamento lo incrini, la cultura ne faccia vacillare qualche certezza: eroe eponimo nella nomenklatura sovietica del Terrore. Il 27 aprile del 1944, Ercoli rientra in Italia e si impegna con piglio oggettivamente operoso alla edificazione di un partito non diverso nella sua collocazione internazionale ma più interessato alle vicende nazionali, dalla creazione delta repubblica, alla stesura di una Costituzione moderna, partecipando come Ministro sino at 1947 al governo del Paese. Non volle, o meglio non poté, adottare una rivoluzione in Italia, comunque differente per epoca e contenuti da quella russa. Gli accordi fra le grandi potenze vincitrici della guerra gli impedivano di ottenere l’aiuto sovietico ad un rivolgimento violento del nostro Paese, l’Italia essendo esclusa, nella spartizione consensuale, da ogni avventurismo anti-democratico che invece travolse tutto l’Est del mondo. Soprattutto il partito “nuovo” di Togliatti fu battuto nettamente dagli elettori italiani nel 1948 dal 48,5 andato alla Democrazia Cristiana o, meglio, ai Comitati civici. Avendo scelto, anche se con interessate correzioni, il terreno del confronto, il capo comunista su questo terreno venne battuto in campo aperto. È una visione forse riduttiva ma certamente ispirata dalla realtà, anche se non vanno taciute, per completezza di giudizio, le due portanti architravi dell’azione politica togliattiana: l’attenzione originate al mondo cattolico e vaticano; la edificazione del partito come operazione di cultura e di produzione editoriale (Einaudi, Feltrinelli, Fondazione Gramsci). In essa si riscontrano le stesse censure, gli analoghi divieti, le strumentalizzazioni di una concezione marxista che fu vincolante ma non vittoriosa.

Di Togliatti si è scritto che fu “uomo di frontiera”. Può darsi. Preferisco fargli posto in qualche girone dell’Inferno di Dante nel quale non stanno gli inetti.

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Il 18 aprile e il tracollo della sinistra

“Il Papa [Pio XII, ndr] aveva già proclamato l’impegno per tutti i cattolici: «Il tempo della riflessione e del progetti è passato; è l’ora dell’azione. Siete pronti? I Fronti contrari nel campo religioso e morale si vengono sempre più chiaramente delineando: è l’ora della prova. La dura gara di cui parla san Paolo è in corso». Poi nell’inverno immediatamente precedente al fatale aprile elettorale, gettò perentoriamente sul piano intimo delle coscienze l’autentica posta in gioco: «O con Cristo, o contro Cr1sto». Il Capo del partito comunista individuò subito nell’intervento pontificio il dato essenziale del tracollo delle sinistre e, soprattutto il fatto che non tanto e non solo De Gasperi sarebbe stato il vittorioso ma, in buona sostanza, Gedda, organizzatore e suscitatore della sollevazione del Comitati Civici. Il tracollo elettorale ebbe, per il Fronte, natura epocale”. (Massimo Caprara, Togliatti ritratto da vicino, Itaca, Castel Bolognese 2003, pp. 25-26).

LA FALSITA' DEI LIBRI DI TESTO

Un autore diceva "il libro è un’ arma". E aveva ragione. Un’arma estremamente efficace, soprattutto se utilizzata contro chi non ha scudi per difendersi. Nelle scuole italiane quest’arma è stata usata per oltre cinquant’anni, e ha avuto l’effetto desiderato, cioè quello di indottrinare generazioni attraverso l’omissione di intere pagine della nostra storia e la mistificazione di altre. Una certa cultura imposta nelle scuole contribuisce ad alimentare ignoranze che in Italia dura da cinquant’anni, e che ha causato lo scontro, spesso durissimo, tra intere generazioni, divise in nome di ideali. Le case editrici, gli autori, i docenti e il Ministero della Pubblica Istruzione che permettono la stampa di alcuni libri di testo, devono assumersi la responsabilità di voler alimentare questo scontro, e di impedire che il popolo italiano possa ricostruirsi una sua identità comune, che può nascere solo da una lettura obbiettiva e serena della sua storia. Perché il mio libro di storia "MODULI DI STORIA 3 il novecento “ di Giorgio De Cecchi, Giorgio Giovanetti, Emilio Zanette afferma delle idee di parte? xchè salta molti argomenti interessanti e importanti? Alcuni esempi:

-perchè non c’è una parola sulle migliaia di nostri connazionali uccisi nelle foibe dai comunisti di Tito per la sola colpa di essere italiani.

-perché quando parla di Stalin non dice che è stato il creatore dei più grandi campi di concentramento di tutti i tempi (i Gulag), che a causa della sua politica sono morti 6 milioni di russi per fame, che ci sono stati 720.000 esecuzioni, 300.00 decessi attestati nei campi tra il ’34 e il ’40, circa 2.200.000 deportati e sfollati, che ha firmato personalmente una lista delle migliaia di persone da fucilare.

-perché quando parla di Benito Mussolini esprime pareri in proposito.

-perche quando parla di Ernesto Che Guevara non viene detto che nel suo testamento, da buon allievo della scuola Maoista-Lennista del Terrore, scrive: <<Amo l’odio, bisogna creare l’odio e l’intolleranza tra gli uomini, perché questo rende gli uomini freddi, selettivi e li trasforma in una perfetta macchina per uccidere>>. Queste parole non vengono da Heinrich Himmler, il fondatore e ideatore delle SS germaniche, bensì dall’uomo che per oltre 30 anni è stato falsamente mitizzato come il simbolo di pace e uguaglianza.

Qui ci sono solo alcuni degli esempi più significativi (riportarli tutti avrebbe voluto dire scrivere centinaia di pagine!) del libro di testo di storia adottato nella mia classe. È facile fare propaganda ideologica, politica e partitica utilizzando la scuola pubblica. Così, come qualcuno ha detto, "la storia è stata sottomessa alla corsa al potere dell’ex PCI". Non chiedo che se ne parli per riportare il numero esatto delle vittime del comunismo nel mondo sui libri di storia. Non mi sogno una edizione scolastica del "libro nero del Comunismo", non mi interessa. Chiedo solo che se ne parli perché è vergognoso che una Nazione degna di questo nome sia disposta a dimenticare i suoi martiri in nome di un interesse di parte. Se è vero che la storia la scrivono i vincitori, è vero anche che costoro hanno vinto più di cinquant’anni fa. Ora basta. E’ tempo che le nuove generazioni abbiano la possibilità di confrontarsi per ricucire una ferita che ha sanguinato troppo a lungo. Non si tratta di scrivere libri "di sinistra" o di "destra", VOGLIAMO SOLO LA VERITÀ

libro nero del comunismo

II recente Libro nero del Comunismo non riesce a individuare la causa principale degli eccidi: l'impossibilità di cambiare, usando i mezzi materialistici indicati dal marxismo, la natura e la coscienza dell'uomo. In pratica, fanaticamente determinati com'erano a eliminare il male dal mondo, i comunisti non hanno potuto fare altro che eliminare l'uomo dal mondo, e l'hanno fatto, come s'è detto, su una scala mai vista prima nella storia. Oggi tanti loro eredi pensano appunto, confusamente, che quegli orribili massacri, se non giustificati, siano stati però nobilitati dalle buone intenzioni iniziali.

Va detto che queste stragi non avevano affatto lo scopo di conservare il potere ai comunisti (non sarebbero state necessarie): quelle stragi facevano parte - in parallelo con I'incremento della produzione materiale - del meccanismo che secondo Marx e Lenin avrebbe dovuta produrre una "società di uomini nuovi". Tale meccanismo presupponeva tra 1'altro la "violenza come levatrice della società nuova".

Si voleva, in pratica, far cambiare a ogni uomo la sua coscienza e la sua natura. Senza tenere nel minimo conto i reali risultati, che consistevano soltanto in montagne e montagne di cadaveri, i comunisti hanno insistito su questa strada perchè il fermarsi avrebbe comportato la rinuncia all'utopica società nuova - libera dai mali di tutte le società precedenti - per costruire la quale essi avevano ormai fatto un così sterminato numero di morti.

Considerando che, a causa del comunismo, nella nostra epoca abbiamo avuto una straordinaria conferma della fondatezza della visione di S. Agostino, per il quale la storia consiste in un alternarsi continuo delle due "città": la "città terrena" (cioè la società degli uomini che, anche quando partono da propositi encomiabili, poichè escludono Dio dalla loro vita, finiscono inevitabilmente col seguire il "principe di questo mondo", ossia il demonio, il quale come sappiamo è "omicida", "padre di menzogna" e "scimmia di Dio") e la "città celeste" (cioè la società di coloro che nel costruire la vita in comune si rifanno in qualche modo agli insegnamenti di Dio), non ci resta che ribadire una convinzione ormai considerata fuori moda, anche in certo mondo cattolico: il vero bene dell'uomo e delle società, già a partire dalla vita in questa terra, è possibile soltanto a condizione di rispettare la legge di Dio. Altrimenti è il trionfo del demonio. Una terza via non è data.

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"Il comunismo è intrinsecamente perverso e non si può ammettere in nessun campo la collaborazione con esso da parte di chiunque voglia salvare la civiltà cristiana"
(Papa Pio XI, Enciclica Divini Redemptoris, 1937).

"[...] Sono queste le ragioni che Ci obbligano, come hanno obbligato i Nostri Predecessori e con essi quanti hanno a cuore i valori religiosi, a condannare i sistemi ideologici negatori di Dio e oppressori della Chiesa, sistemi spesso identificati in regimi economici, sociali e politici, e tra questi specialmente il comunismo ateo"
(Papa Paolo VI, Enciclica Ecclesiam Suam, 1964).


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